Il deserto del Great Basin è un quadrante arido di terra messa a nudo nel suo stato primordiale.  Dal grande lago salato dello Utah alle distese aride di Nevada California e Arizona, una sorta di topografia della memoria geologica del pianeta. Sovrimpressa, c’è la geografia della mitologia americana, della frontiera e della conquista territoriale.
Il manifest destiny elevato a religione di una nazione sempre tesa fra contemplazione della natura maestosa e la compulsione a  sottometterla (con tutti i suoi originari abitanti umani e animali) per la maggior gloria nazionale.

OLTRE CHE CROGIOLO dell’esperienza nazionale – l’ovest è ed è stato vasta riserva di risorse. È l’allevamento del bestiame l’industria celebrata dai western, ma le vere fortune del west sono state costruite con l’estrazione di metalli, minerali e idrocarburi. Ragione per cui questo paesaggio sedimentato nell’inconscio collettivo è stato trivellato, perforato e scavato senza tregua.

I  brulli deserti sono punteggiati da ghost town, le città nate come company towns, per fornire alloggi ai minatori e abbandonate da un giorno all’altro al cessare delle attività o l’esaurimento della vena di rame o di argento che le sosteneva. Ovunque vi sono le tracce di un capitalismo originario, selvaggio e fondativo e, a cercarle bene, le occasionali targhe che ne commemorano gli episodi salienti: il Ludlow massacre del 1914 quando le milizie al soldo di John D Rockfeller  attaccarono un accampamento di scioperanti in Colorado uccidendo venticinque uomini donne e bambini. O la deportazione di Bisbee in Arizona, dove gli operai della gigantesca cava di rame della Phelps Dodge avevano aderito agli Industrial Workers of the World e furono caricati in mille e trecento da milizie armate su carri bestiame, trasportati per sedici ore nel New Mexico e abbandonati nel deserto

È LA STORIA SEGRETA di questo paesaggio mozzafiato. Una delle storie segrete dato che, come testimoniano le città rupestri anche queste abbandonate, prima, molto prima c’erano state le civiltà scomparse degli antichi indiani pueblo, gli Zuni e gli Anasazi. D’altronde  l’azzeramento, la cancellazione e il letterale ritorno alla polvere è la cifra del deserto, come testimoniano i fantasmi di antichi laghi oggi secche distese di candido sale.
In questo paesaggio la US 395 percorre l’angusta vallata stretta fra le vette della Sierra Nevada e la Valle della Morte, tagliando di netto in due Inyo Country, la provincia californiana che contiene sia il picco più alto dell’America continentale (Mount Whitey 4421 m.) e la depressione più profonda del paese (Badwater, Death Valley – 85 metri sotto il livello del mare).

Un viaggio su questa striscia di asfalto equivale a un on the road nella memoria stratificata, come i depositi di soda e boro nel letto asciutto del Owens Lake, il lago fantasma prosciugato dalla grande sete di Los Angeles che, nel 1908, ne requisì le acque incanalate nell’acquedotto progettato da William Mulholland (era il mefitico John Huston nel film Chinatown di Roman Polanski che ne narrava i retroscena).

IN QUESTA VALLE DIMENTICATA si sedimentano ricordi traumatici. Saliamo verso nord, oltre all’Owens, si susseguono simulacri conservati dall’aria secca del deserto: Trona, una company town mezza fantasma, abbarbicata attorno alla vecchia miniera, che prende il nome dal carbonato di sodio che veniva estratto dal deserto circostante.  Poi Manzanar, il vecchio campo di prigionia dove durante la guerra furono rinchiusi migliaia di cittadini di origine giapponese. I resti delle baracche e delle cucine sferzate da vento che scende dalla Sierra testimoniano uno dei grandi soprusi del ventesimo secolo americano. Reperti di una storia aspra, intrisa della  implicita violenza del destino manifesto.

LA MEMORIA SBIADITA di questo hinterland spettrale è sopraffatta invece dalle immagini più nitide contenute nei fotogrammi dei film che in questa valle solitaria sono stati girati. Nel 1920, quando Hollywood era ancora lontana quindici ore di guida su strade sterrate, arrivò da queste parti la carovana di automezzi di una troupe della Paramount. Sulle alture nei pressi di Lone Pine il regista, George Melford trovò, la location ideale per ambientare il suo western comico interpretato da Fatty Arbuckle.

Sarebbe stato il primo di oltre quattrocento pellicole, quasi tutte a tema western, filmate da allora sulle Alabama Hills, location privilegiata per la grande opera di riformulazione storica di Hollywood.  I panorami della Owens nell’inquadratura rappresentavano perfettamente i paesaggi topici della scoperta «eroica» del West, fino a vivere di «vita propria» come paesaggi epici nelle cineprese di generazioni di registi, da Raoul Walsh a Quentin Tarantino.
Lone Pine, il piccolo paese all’ombra del tridente di Mount Whitney, diventò una specie di sede distaccata di Hollywood e oggi mantiene il Museum of western film history, che organizza tour di vecchi set nell’high desert circostante. Usava infatti allora, alla fine delle riprese, semplicemente abbandonare le scenografie agli elementi e il territorio è disseminato di reperti cine-archeologici.

QUESTA ARCHEOLOGIA dell’immaginario viene promossa soprattutto durante il Lone Pine Film Festival, dedicato unicamente a pellicole girate in zona, dai serial dei singing cowboys come Tom Mix, Roy Rogers e Gene Autrey negli anni ‘30, ai film di un autore come Budd Boetticher che ambientò qui quasi tutta la sua considerevole  produzione di B western.
Ogni ottobre, appassionati di vecchi film vengono trasportati nel deserto a bordo di fuoristrada alla ricerca di frammenti di falegnameria, cartongesso e altri attrezzi scenici, serviti da sfondo alle gesta di John Wayne, Tyrone Power o Kirk Douglas.  Ci sono le flebili testimonianze dell’ultima disperata fuga di Humphrey Bogart, gangster braccato dai poliziotti  in High Sierra di Raoul Walsh (sceneggiatura di John Huston) sulla serpentina che si arrampica sulle pendici del Whitney.

A fondovalle invece c’è ancora qualche detrito del paese fittizio di Black Rock  nel quale, in Giorno Maledetto di John Sturges, giunge Spencer Tracy, prima di scovare il terribile segreto del paese che dietro la minacciosa omertà nasconde il linciaggio di un contadino giapponese. Non lontano verso nord, sulle sponde di Mono Lake c’è chi ha trovato i resti incrostati di vernice rossa della città costruita per Lo Straniero Senza Nome – il taciturno pistolero interpretato a Clint Eastwood nel suo secondo film da regista.

Un tour della memoria posticcia, che sovrappone la propria forza evocativa al più prosaico passato di questo West aspro e bellissimo. Lo Schliemann di questa Troia di cartapesta è stato Dave Holland, scrittore cinefilo e fondatore del festival che dal 1990 ha ricevuto ospiti illustri del calibro di Gregory Peck e Douglas Fairbanks, venuti a rievocare per un fedele pubblico di fan, le loro riprese e tante altre. Quelle  di Brigham Young (La Grande Conquista) ad esempio con Tyrone Power nei panni del leader mormone che nel 1847 condusse 20000 adepti della setta nell’epica marcia dall’Ohio fino a Salt Lake City.

AGLI AVVENTORI DEL MUSEO non interessa la storia «vera» di quell’esodo o della tensione all’epoca fra governo federale e chiesa mormone che rischiò di sfociare allora in una guerra civile di religione. Qui viene rievocata la rappresentazione  romantica di quegli eventi.
I miseri resti dei set esercitano su queste persone un fascino più irresistibile della cittadina fantasma di Bosie, una specie di Pompei western qualche chilometro di 395 più a nord. È ancora spettralmente conservata come la abbandonarono i minatori d’argento all’esaurirsi del vicino filone nel 1890. Convivono in questa valle la storia e il suo doppio epico. In questo, il piccolo museo di Lone Pine è ontologicamente all’avanguardia, col suo catalogo tassonomico della memoria virtuale collettiva rappresentata dai vecchi film, il cui evanescente bagliore si riflette tuttavia in un luogo sperduto dove si mescolano memoria e oblio.