«Quando mi chiedono dei trentadue bambini che hanno perso la vita a San Cristobal la mia risposta varia a seconda dell’età dell’interlocutore. Se è mio coetaneo rispondo che comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto soltanto in modo frammentario, se è più giovane gli chiedo se crede o no nei cattivi presagi. Mi rispondono quasi sempre di no, come se crederci equivalesse a nutrire poca stima nella liberta. A quel punto non faccio altre domande e racconto la mia versione dei fatti, perché è l’unica cosa che posso fare e perché sarebbe inutile convincerli che qui non si tratta tanto di apprezzare la libertà quanto di non credere ingenuamente nella giustizia».

Così, rivelando sin dalla prima riga il terribile denouement del suo nuovo romanzo, Repubblica luminosa (traduzione di Pino Cacucci, La nave di Teseo, pp.188, euro 18,00) Andrés Barba si libera, come lui stesso ha sottolineato, «della tirannia della trama», e preannuncia l’andamento falsamente cronachistico della narrazione, concepita abilmente come un puzzle con troppi pezzi mancanti (domande senza risposta, ipotesi non verificate, misteri irrisolti) che gli impediscono di arrivare a una forma definitiva.

Esigenti pifferai
L’incipit conferma, inoltre, il ritorno del madrileno Barba – romanziere, saggista, poeta, traduttore e, a poco più di quarant’anni, uno dei migliori esponenti della letteratura spagnola ed europea di oggi – a un tema che gli è specialmente congeniale, ovvero l’infanzia e l’adolescenza, età di passaggio e di trasformazione, già affrontate in modi differenti, nell’ipnotico Piccole mani (Atmosphere, 2011), in La sorella di Katia (Instar libri 2005), e in Agosto, ottobre, Mondadori 2010.

Vincitore nel 2017 del Premio Herralde de Novela, Repubblica luminosa potrebbe far parte della vasta letteratura e filmografia sull’alterità di un’infanzia selvaggia, inconoscibile, aliena: sarebbe però azzardato paragonare il romanzo – che pure racconta di una torma di bambini fra i nove e tredici anni, apparsi dal nulla e capaci di tenere in scacco, a metà degli anni Novanta, i duecentomila abitanti di un’immaginaria cittadina tropicale – a Il signore della mosche di William Golding o a The Midwich Cuckoos di John Wyndham o a The children of the Corn di Stephen King, o alle tante storie di enfants sauvages allevati dagli animali.

Non solo i punti di riferimento dichiarati dall’autore sono altri (Conrad e il suo Cuore di tenebra, o The Children of Leningradsky, documentario del 2004 di Andrzej Celinski e Hanna Polak sui bambini che vivono nel metrò di Leningrado, o la trilogia di Maeterlink sugli insetti, o semplicemente la realtà delle bande di ragazzi di strada nelle metropoli di varie parti del mondo), ma le questioni poste dal romanzo vanno ben oltre la rivisitazione di un mito minaccioso, specularmente opposto a quello della fragile «età dell’innocenza» che ancora oggi abita, con mille varianti, l’immaginario collettivo: l’uno e l’altro invenzioni culturali che «potrebbero costituire un eccellente test proiettivo del sistema di valori e delle aspirazioni di una società», scriveva nel 1971 Marie -José Chombart de Lauwe in Un mond autre: l’enfance.

Repubblica luminosa è un romanzo indiscutibilmente politico su una comunità infantile portatrice di una sorta di utopia anarchica, sottratta al controllo e agli stereotipi degli adulti, che rifiuta di farsi addomesticare e semina il panico in una citta stretta tra la selva e l’immenso fiume Eré: la torpida San Cristobal, appena approdata a un tranquillo benessere, governata da una classe media che si prende cura dei propri figli e non fa caso alla educata miseria dei piccoli indios che vendono orchidee e limoni lungo le strade.

Anche i trentadue bambini sono poveri, ma qualcosa li rende irreparabilmente diversi: chiedono, esigono, si prendono quello di cui hanno bisogno, parlano una lingua nuova (a stento decifrata solo da Teresa, ragazzina borghese incantata dal fascino di questi «pifferai», che verranno presto raggiunti da altri bambini della città), ignorano capi e gerarchie, arrivano a uccidere durante un saccheggio, come trascinati dal piacere di un gioco incomprensibile.
Se per un po’ la città li ha considerati «soltanto bambini», diventeranno dopo non molto prede da torturare per ottenere informazioni (è la sorte dell’unico ragazzino catturato) e a cui dare la caccia nella foresta e nel sottosuolo, dove il gruppo ha occupato un’enorme sala all’incrocio tra i condotti fognari, ricoprendola con un mosaico di vetri, latta, plastica, un’opera d’arte che brilla meravigliosamente quando la luce penetra dai tombini.

È solo dopo vent’anni che un narratore di cui non sappiamo il nome, che ha rivestito una carica ufficiale e preso parte alla caccia, prova a ricostruire quella storia, che ha indotto i «bravi cittadini» e lui stesso, uomo non privo di senso etico e morale, a elaborare strategie violente e autogiustificazioni dissennate. Se ci sono riusciti è perché quelli non erano i «loro» bambini, ma «i trentadue»: un minimo spostamento semantico che ha trasformato i membri del gruppo in usurpatori capaci di scardinare valori e certezze, mostrando come il mondo ordinato della città non sia l’unico possibile, e come basti poco a sovvertirlo e gettarlo nel caos. Per tornare a essere «soltanto bambini» , gli invasori dovranno morire travolti dal fiume, mentre cercano di sfuggire ai «cacciatori», e l’ipocrisia cittadina, oltre a dedicare loro una statua di pessimo gusto, si sforzerà di identificarli e di rintracciare le famiglie da tempo abbandonate: un altro modo, in fondo, di ristabilire l’ordine.

Una prosa sommessa
Una storia, quella di Repubblica luminosa, che potrebbe accadere e di fatto accade in molti luoghi, per la quale Barba ha scelto la forma della cronaca e una prosa misuratissima, sommessa e riflessiva, in cui esplodono a tratti scorci di paesaggio dai colori sontuosi, istantanee di volti e di gesti, indimenticabili lampi descrittivi: un cadaverino sepolto in posizione fetale e confortato da offerte di cibo e giocattoli; lo sguardo assorto di un ragazzo sulla donna che ha appena accoltellato a morte; le impronte lasciate da piccoli corpi su giacigli improvvisati.

Il narratore (che accenna discreto e malinconico ad affetti, delusioni, perdite, e a una rimpianta acquiescenza e viltà) riporta via via ciò che sul caso è stato detto, filmato, scritto da autorità, giornalisti e ricercatori, cita documenti, inserisce brani del diario di Teresa, cuce il tutto con ricordi e domande, costruisce a poco a poco un crescendo che irretisce il lettore. Nell’assoluto rigore della scrittura, in apparenza così naturale e in realtà molto sorvegliata, affiorano tocchi di un «gotico tropicale» che non cancella l’effetto realistico attentamente cercato dall’autore, anzi lo sottolinea, e l’essenziale brevità del romanzo contribuisce in modo determinante alla sua riuscita.