Terzo Pirandello per Federico Tiezzi, che raccoglie il testimone dello spettacolo che Luca Ronconi avrebbe dovuto mettere in scena al Piccolo, Questa sera si recita a soggetto (alla sala Grassi di via Rovello fino al 24 marzo). È la terza parte della cosiddetta trilogia del «teatro nel teatro», che conclude dopo Sei personaggi in cerca d’autore e Ciascuno a suo modo. Nel testo, del 1930, lo scrittore siciliano rende esplicita, quasi didascalica, la disputa su chi abbia diritto a firmare uno spettacolo: l’autore del testo oppure colui che appunto lo «mette in scena» guidando gli attori e dandogli il definitivo corpo da offrire allo spettatore.

Allora ovviamente la figura del regista era ancora agli albori, e il tema era poteva essere appassionante per il pubblico e per i teorici del teatro. Il secolo breve (purtroppo o per fortuna, chissà) si è ingoiato nella fretta anche la regia, mestiere sconosciuto prima di cento anni fa. Dopo la scomparsa di Ronconi e Castri, ma anche di Strehler, Grüber e Chereau, c’è chi proclama (a volte rischiosamente gongolando) la morte di una attività che era arrivata a praticare con fascino e sapienza proprio la «regia critica». Del resto oggi i registi non mancano, come il lavoro mirabile di Tiezzi dimostra.

Scarseggiano semmai tra le nuove generazioni di teatranti, ma è una partita ancora aperta. Forse, nel caso specifico di Pirandello, può esser venuta meno l’attrattiva di certi contenuti «teorici», dopo che sono cominciati a venir fuori, negli ultimi anni, più sulfurei fumenti che mettono in causa lo stesso autore: non tanto la sua biografia, che a lui solo appartiene, ma il suo rapporto con i personaggi che andava creando (come si è visto, per fare solo due esempi, in Così è se vi pare, o In cerca d’autore come Ronconi ha intitolato i suoi Sei personaggi).

In ogni caso Tiezzi crea uno spettacolo molto bello, elegante e puntuale, denso di immagini e citazioni magnifiche, come sono anche i costumi di Gianluca Falaschi, funzionali e insieme disseminati di riferimenti alle avanguardie storiche. Così come profondamente legata alla lettura di Tiezzi, è la scena essenziale di Marco Rossi, fatta di elementi mobili che ogni volta raccolgono o dispongono alla perfezione quanto i personaggi raccontano.

In un testo che vive del confronto anche assai acceso tra il «regista» Hinkfuss e gli attori, la regia di Tiezzi innesta un’altra diarchia, costituendo quasi un parallelo tra Wittgenstein e Pirandello. Magari usando e dilatando su scritte al neon alcune affermazioni famose del filosofo viennese, che diviene così lo sfondo teorico degli appassionati discorsi di Hinkfuss sulla messa in scena di un testo (con una bella performance di Luigi Lo Cascio, che trova una misura insieme entusiasta e convincente).

Tutti gli attori in realtà danno prove notevoli, motivando di fatto la scelta registica di Tiezzi. Tutti complici a svelare il sottofondo torbido di quell’italietta pirandelliana, provinciale e ambiziosa, dall’ipocrita moralità che è sempre pronta alla fornicazione con i più forti, nella fattispecie i militari del locale reggimento. Nel senso erotico e in quello politico, risulta chiaro. Le figlie sgallettate della signora La Croce, detta La Generala (la brava Francesca Ciocchetti che si prende il successo dei suoi paradossi comici) e i soldatini dal pensiero fisso che per quelle gigioneggiano e smanazzano; il capofamiglia dello sgangherato ensemble, che sarebbe tragico se Massimo Verdastro non lo rivestisse di eccessivo birignao, mentre si sdilinquisce, fino a morirne, dietro la tenebrosa Chanteuse cui invece Elena Ghiaurov dà una impressionante, quasi sacrale, allure da diva berlinese/hollywoodiana.

Fino alla coppia che a un tratto si appropria della centralità della commedia, la figlia Mommina e il suo odioso marito Verri, prima soldato poi coniuge ringhioso e geloso. Quasi che il racconto sfuggisse a quel punto di mano a Pirandello (che l’aveva tratto da una sua novella) e per incongrue vie si inarcasse nel famoso monologo di lei su cosa è il teatro che avrebbe voluto frequentare, e nella violenza maschiesca di lui che vede ormai solo corna nella loro storia. Sandra Toffolatti e Francesco Colella sono superbi nei loro ruoli, danno un senso tragico a tutta la vicenda, e in qualche modo fanno volare via le certezze di Hinkfuss e i dubbi dello spettatore. La discussione sulla regia e sul testo perde di peso, e lascia il passo alle visioni, accurate come una pittura manierista, che arrivano a sfociare in una drammaticità «vera», di più elevata temperatura teatrale.