A
Domenica scorsa è morto a Roma, stroncato da un attacco cardiaco a settantacinque anni, Giuliano Vasilicò, uno degli esponenti più significativi e rilevanti di quella avanguardia teatrale romana (da Giancarlo Nanni a Memè Perlini) che negli anni Settanta rese la città una capitale davvero mondiale del teatro. E soprattutto che riuscì a risvegliare e riscuotere interesse di pubblico e attenzioni della critica davvero inimmaginabili oggi.Sullo stesso manifesto, quando il giornale decise di dare spazio allo spettacolo, fu proprio una lunga intervista a Vasilicò il primo articolo specificamente teatrale ad essere pubblicato, nell’autunno del 1976.
Di quella «scuola romana», che appuntava la propria ricerca su «immagini» e testi fuori da ogni canone tradizionale, l’artista emiliano costituì un apice, addentrandosi con il proprio originale linguaggio nei meandri della grande letteratura, non solo scenica.

 

 

 

La sua prima apparizione fu al Beat 72 con una performance dal titolo già programmatico: Missione psicopolitica. Poi una personalissima versione di Amleto, e nel 1974, indimenticabili, Le 120 giornate di Sodoma. Mai la voce di Sade era risuonata così forte e provocatoria (Salò-Sade di Pasolini uscì due anni dopo), perfino nel sorriso ironico o imbarazzato che quella eruzione di parole montata su macchinari scenici aggettanti poteva suscitare. Fu un trionfo mondiale, lo spettacolo di bandiera di un rinnovamento radicale e liberatorio.

 

 

Poi il regista lavorò, con i suoi tempi e la sua meticolosità, a Proust, «scandalosa» e applaudita visualizzazione della Recherche, e poi ad una annosa no cambiati, con i patinati anni Ottanta alle porte. Ma il nome di Vasilicò, legato in particolare al suo Sade e al suo Proust, resta nella storia, del teatro, e anche del gusto e dei brividi che uno spettacolo può imprimere alla sua società.