Nel Baudelaire scolpito da Raymond Duchamp-Villon l’immaginazione non può spaziare fuori, è introflessa, serrata entro l’enorme volta cranica: niente di meno romantico. Energia potentemente rappresa: il principio strutturale è centripeto, un nucleo trae a sé la figura dall’interno. Più che l’Immaginazione, per Baudelaire «regina delle facoltà», questa scultura rappresenta, giusto il suggerimento di Jean Cassou, 1967, il Pensiero: «Image absolue d’une tête, qui (…) pourrait s’appeler la Pensée». Solo, separato nel pensiero, semimorto, questo Baudelaire assomiglia a Pascal! Del resto, la «lucidità» di Baudelaire «sull’uomo è dello stesso tipo della lucidità di Pascal, che considerava il ‘poeta’ come il più intelligente dei reprobi» (Albert Thibaudet).
Duchamp-Villon concepì il busto nel 1911 su stimolo di Jacques Crépet, illustre critico baudelairiano, che sognava di far realizzare un monumento alla memoria del poeta. Jacques era figlio di quell’Eugène, che di Baudelaire era stato amico, al quale si doveva la pubblicazione, nel 1887, di preziosi inediti, di cui era depositario – i Journaux intimes e una parte della corrispondenza –, che aveva accompagnati con un fine ritratto psicologico. Non sappiamo se e quanto lo scultore fosse addentro negli aspetti più privati della vita di Baudelaire. Oltre a quel che gli poteva derivare dalla lettura sicuramente appassionata delle Fleurs e degli scritti d’arte (che non sono teneri con il genere «scultura»), egli ebbe a riferimento precisi documenti visivi fornitigli dallo stesso Jacques Crépet, attualmente conservati nella Bibliothèque Kandinsky del Centre Pompidou, tra cui spiccavano i ritratti fotografici realizzati da Étienne Carjat e Charles Neyt: essi fissano una facies, oggi divenuta immagine canonica, dove si mescolano singolarmente – tra la fronte spaziosa, gli occhi sull’osservatore: penetranti, la bocca tagliente: una fessura – laconicità e allarme.
Questi i riferimenti più immediati, ma Duchamp-Villon, i cui esordi vanno ricercati in Rodin, non poteva ignorare il celebre precedente appunto rodiniano, del 1892, una testa giovanile di Baudelaire la cui espressione è tutta affidata al gioco mobile dei riflessi luminosi. Infatti, i due primi modelli, piccoli studi in bronzo, Raymond li realizza quasi in continuità, tutto dedito alla ricerca di corrispondenze psicologiche di superficie, che nel primo caso produce «un’impressione quasi diabolica», in netto contrasto con l’«imperturbabilità» fisica del poeta, come ha scritto nella sua ottima tesi di laurea su Duchamp-Villon (da pubblicare) Gemma Zaganelli.
Il passaggio alla versione definitiva dell’opera segna un cambiamento radicale, che implica le novità intervenute nelle idee dello scultore normanno in seguito alle discussioni di Puteaux: in questo luogo della banlieue parigina egli si era trasferito nel 1907 al seguito del fratello maggiore Jacques Villon, due atelier in uno stesso complesso che costituirono il centro di irradiazione di una particolare versione del cubismo, la Section d’Or, fondata sulla speculazione matematica di base, e greca, e leonardesca. La purezza cristallina del busto di Baudelaire, il principio tettonico che lo sostiene, il rigore dei suoi rapporti proporzionali, i piani affilati, condotti a un’essenzialità mai sperimentata, sono, nel percorso dell’artista, il primo risultato di quelle meditazioni. Come ha visto la critica, un peso determinante ebbe per Duchamp-Villon il confronto altamente selezionato con l’arte antica: da una parte alcune teste del portale reale di Chartres; dall’altra, soprattutto (lo indicò nel 1914 Louis Hautecœur), le teste di basalto nero e diorite del Periodo Tardo egizio. Un Baudelaire egizio, insomma, nella fissità degli occhi vacui, nella presenza di idolo moderno. Del resto Raymond aveva licenziato, un anno prima, 1910, quel Torse de jeune homme, realizzato sul corpo scattante del fratello minore Marcel (Duchamp), che nell’incastro esatto ed euritmico delle membra si rifaceva scopertamente all’arte greca severa, in particolare le sculture di Egina.
Un Baudelaire impassibile, senza tempo: «La plastica era per lui [Duchamp-Villon] un evento figurativo primario, nonché l’esperimento di porre in un mondo disparato cose in cui si manifesti una vera grandezza». La frase, 1958, di Werner Hofmann trova risonanza in una lettera dello scultore a destinatario ignoto, pubblicata da Cassou nel 1966. È il 17 dicembre 1915, l’anno prima ha realizzato il suo capolavoro cubista – un «proiettile» nelle parole di Matisse – Le Cheval. Da settembre egli è al fronte, nella Champagne (la guerra gli sarà fatale, morirà il 7 ottobre 1918 a soli 42 anni) e, impressionato dal caos delle circostanze, dalla dismisura della sua esperienza, se ne esce fuori così: «Toujours est-il que la pensée synthétique fait ici un grand progrès». La pensée synthétique, che aveva perseguito almeno a partire dal Baudelaire, diviene una specie di argine morale contro la guerra. Qualcosa di simile a quel che avvenne in Léger: «È proprio là nelle trincee che ho afferrato l’oggetto».
Secondo la testimonianza di Villon, del Baudelaire Raymond aveva realizzato cinque o sei versioni in gesso, quattro in terracotta, tre in bronzo. Ma bisogna aspettare l’imminente uscita del catalogo ragionato dell’opera dell’artista, a cura di Patrick Jullien, per avere un quadro più preciso della questione. Sicuramente un volto in terracotta era presente, nel 1913, all’Armory Show, la manifestazione che aprì gli occhi dell’America sull’arte moderna, organizzata fra gli altri da Walter Pach, cui si deve la prima monografia di Duchamp-Villon, 1924.
Non ancora cubista in senso proprio, la testa fu al centro delle riflessioni del gruppo di Puteaux, che contava, oltre ai tre fratelli Duchamp, Gleizes, Metzinger, Picabia, Kupka, Léger, Le Fauconnier, La Fresnaye, Marcoussis, Mare. Nel 1955, in dialogo con Dora Vallier, diceva Jacques Villon: «Mi ricordo che verso il 1911 ci capitava di dire (…) che se il Buste de Baudelaire fosse esploso, sarebbe esploso secondo certe linee di forza: le linee di forza rappresentano dunque l’oggetto considerato nel suo centro, sono loro a definire la forma» (con lo Cheval queste linee di forza si sarebbero rese evidenti, dislocandosi nello spazio come potente incastro di energie). Dopo la morte del fratello, a partire dal 1919, il Baudelaire diventerà per Villon una presenza costante, non solo nella sua concretezza, figurando fra le sculture di Raymond da lui ereditate e gelosamente conservate nell’atelier (prima di lasciare Parigi durante l’occupazione nazista le seppellirà in giardino), ma come motivo di ispirazione, lungo l’intero arco della sua lunga carriera, per molte opere: dipinti, disegni, incisioni. Il busto diviene un fantasma, una specie di ossessione. Villon lo immette scopertamente nell’estetica prismatica leonardesca cui si era votato a partire proprio, 1911, dal supremo ritratto del fratello Raymond, le cui orbite vuote si apparentavano del resto a quelle del Baudelaire, scolpito lo stesso anno. Nel 1920 scompone la testa in piani sovrapposti «come una carta in rilievo». In uno dei disegni preparatori per la meravigliosa acquaforte Baudelaire au socle, 1921, il volto diventa una sorta di armatura à facettes ottenuta dalla perentorietà dei tratteggi angolosi.
«Architetto della scultura moderna», secondo la definizione di Judith Zilczer, Duchamp-Villon ha dato con il Baudelaire un’effige in cui la modernità si rinnova nel nome di un’assolutezza sbaragliante: la scultura trae la sua presenza dal carattere di entità radicalmente autoconclusa, di organismo perfetto. Presenza «profetica», ha suggerito Hofmann, stabilendo il parallelo con Brâncusi. Dei due elementi di cui, secondo il Baudelaire della vie moderne, è composta la bellezza, non è dunque quello «relativo» e «occasionale» a ricevere statuto in Duchamp-Villon, ma, decisamente, quello «eterno» e «invariabile». Non è la sublime caducità dell’epoca e della moda che interessa Raymond.
Egli, del resto, fa parte della generazione che, con Apollinaire, ha assunto sì la centralità della lezione baudelairiana, ma ha inteso spurgarla di quella «passion dégoûtée», di quella nausea della catena del tempo, così coltivata nelle paludi fin-de-siècle ma altrettanto impediente rispetto al compimento del suo stesso vaticinio di modernità. «Un odore di tomba nel buio si diffonde»: dopo l’esperienza delle trincee tutto il reale concordava con Baudelaire: «La natura non può consigliare che il delitto». Eppure Duchamp-Villon, che di quell’esperienza fu vittima, avrebbe potuto condividere di Apollinaire, che ne fu vittima anch’egli, la secca affermazione, giugno 1917, contro il «pessimismo» di Baudelaire: inalberando il ritratto da lui scolpito.