Scrivere di Grazia Deledda, oggi, significa confrontarsi con una scrittrice complessa, atipica per formazione culturale e modi della narrazione, coinvolta nei processi della modernità più di quanto appaia; e con la necessità di una forte revisione critica.

Deledda, unica scrittrice italiana insignita del Nobel, ma inserita con difficoltà nel canone della letteratura italiana fra i classici, è esclusa, o quasi, dai manuali scolastici e dall’insegnamento universitario. Ma, in California, Margherita Heyer- Caput la studia: «antesignana di un movimento letterario al femminile di livello occidentale … tra le prime a gettare ponti per le culture dei diritti delle donne».

Di recente, soprattutto in Sardegna, nuove ricerche hanno fatto conoscere materiali dispersi, aprendo riflessioni stimolanti: novelle (la produzione sommersa nelle riviste, accanto alle raccolte ufficiali); epistolari (soprattutto con Angelo De Gubernatis, «ineguagliabile finestra verso l’esterno»); documenti d’archivio.

NEL 2016, novanta anni dal Nobel e ottanta dalla morte, oltre al pressing sulle istituzioni perché sia inserita nei programmi scolastici, e mentre si annuncia l’edizione nazionale delle opere, Deledda è stata oggetto di una straordinaria pluralità di sguardi. Anzitutto tre biografie, scritte da autori che non sono critici letterari: è ancora vivo l’interesse per l’esistenza di una donna del passato, costruita su testimonianze che delineano reti di relazione private non solo pubbliche, fondamentali per la conoscenza di una scrittrice poco presenzialista (proverbiale la sua riottosità persino nella sede della Nuova Antologia: «Non sapeva conversare. Era un silenzio che ascoltava» così Lucio d’Ambra).

Nel bel volume Grazia Deledda. Una vita per il Nobel (Delfino, pp. 2018, euro 20) Elvira Ciusa Romagna, storica dell’arte e saggista, ricostruisce il percorso della scrittrice, da Nuoro «luogo germinale della sua arte» alla «bella, ventosa Cervia». Il contributo più stimolante riguarda il periodo romano: non solo salotti letterari e caffè artistici, luogo di incontro di poeti e narratori di livello anche internazionale, di pittori (Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Mario Sironi); ma attenzione ad attività non esclusivamente letterarie: collabora a La grande illustrazione di Basilio Cascella (insieme a Sibilla Aleramo, Filippo T. Marinetti, Marino Moretti, Federico Tozzi, Antonio Baldini, Alfredo Panzini), recensisce la Biennale di Venezia per L’Unione sarda. Si interessa alla trasposizione delle sue opere in altri linguaggi artistici: la richiesta a Giacomo Puccini per la versione in opera lirica de La via del male, la trasposizione teatrale di Edera (insieme a Camillo Antona Traversi), il film da Cenere, con Eleonora Duse.

Deledda come un romanzo (Donzelli, pp. 128, euro 19,50) di Luciano Marrocu, storico e narratore, è un libretto agile tra saggistica e romanzo: la vicenda di una donna in continuo movimento fra creazione letteraria e desiderio di autoaffermazione (sapeva chi era e soprattutto cosa voleva) capace di individuare i canali per pubblicare («ha trovato editori di buon livello senza spostarsi un giorno da Nuoro»). È raccontato il rapporto con due decisivi eventi della storia: la grande guerra (scarsa l’eco nelle opere), il fascismo. A differenza di Pirandello, Deledda non saltò sul carro di Mussolini. Dopo il Nobel, a chi le chiedeva se avrebbe scritto sul regime rispose «l’arte non ha politica»: i librai ebbero ordine di non pubblicizzare le sue opere. Certo Deledda sa «quale problema sia per gli artisti avere a che fare con un potere totalitario», ma non coglie «la dimensione tragica» di ciò che accade in Italia.

PUNTI DI FORZA della ricerca di Rossana Dedola, psicoanalista junghiana a Zurigo, Grazia Deledda. I luoghi gli amori le opere (Avagliano, pp. 400, euro 22), due scoperte: lettere e cartoline postali inedite inviate da Deledda, fra gli altri, allo scrittore Julius Rodenberg, direttore della rivista Deutsche Rundschau, alla moglie Justine, interessante documentazione dello scambio culturale con interlocutori stranieri (archivi di Weimar, Zurigo e Vienna); una biblioteca ignorata, nascosta dietro quella ufficiale della famiglia Deledda-Morelli, con i grandi romanzi del Novecento europeo che Grazia e le sorelle leggevano. Insieme, Dedola apre piste che sottraggono Deledda a una luce tranquilla e un po’ convenzionale: la percezione di legami con il vasto mondo (da Mansfield a Lawrence a Tagore), il contatto con passaggi importanti (il congresso nazionale delle donne, le battaglie per il divorzio), la scoperta di nuovi paesaggi letterari (la bassa Padana più tardi raccontata dalle parole di Giovannino Guareschi e Riccardo Bacchelli e dalle immagini di Olmi e Bertolucci).

Insieme alle biografie offre materiali preziosi alle ricerche future, la pubblicazione del carteggio (dal 1909 al 1936) con la direzione del Corriere della Sera (Giambernardo Piroddi Grazia Deledda e il Corriere della sera, Edes, pp. 446, euro 28). Deledda, in nome dell’ autonomia artistica, del rifiuto della scrittura come mestiere («Io non sono capace di scrivere nulla pensando di rendere il mio lavoro adatto a tale rivista o giornale: scrivo come sento»), appare sempre meno disposta a subire censure da parte della redazione, soprattutto durante il fascismo.

TRA GLI SCRITTI del 2016 anche un «romanzo in forma di teatro» di Marcello Fois, Quasi Grazia (Einaudi, pp. 136, euro 13): Deledda è colta in tre momenti di svolta: l’addio alla Sardegna dopo il matrimonio, il Nobel, la conferma del male incurabile che la portò alla morte.
La pluralità di sguardi che si è appuntata sulla scrittrice impone nuove direzioni di ricerca. A partire da un ritorno ai testi per ritessere il rapporto fra vita e scrittura, oggi divaricate.
È bene ripartire da Nuoro: Deledda non sarebbe la scrittrice che è se non fosse donna e nuorese. Per Carlo Bo non è scrittrice regionale: la si può capire «senza la Sardegna», ma non «senza Nuoro», quella di fine Ottocento, da poco inserita nelle dinamiche dello stato unitario. Deledda non solo compie uno straordinario atto di disobbedienza alle regole della società tradizionale che non la vogliono scrittrice, ma sogna, attraverso la scrittura, di diventare qualcuno («Io ora sono piccola, sono umile e oscura, ma la voce potente della mia volontà mi dice che anch’io un giorno potrò essere grande», a De Gubernatis).

E scrive quello che vuole lei, certo non di vendetta e sangue come gli editori chiedevano. Gli anni nuoresi vanno indagati non solo attraverso la rete di rapporti con editori, scrittori e critici, ma attraverso quella di relazioni che ne plasmano i sentimenti e le memorie di donna. In particolare le «intelligentissime» sorelle: Peppina testimone della sua «vera e dolorosa» vita, Nicolina, apprezzata pittrice, che di lei ha lasciato un bel ritratto a matita. Come è da indagare la funzione Deledda nella letteratura di donne che si sviluppa a Nuoro dal primo Novecento: una genealogia femminile (Mariangela Maccioni e Maria Giacobbe) unita da legami significativi, nel rapporto fra norma e trasgressione, fra l’isola e l’oltre.

IL PERIODO ROMANO va indagato nelle esperienze di una Deledda che affianca alla solitaria attività di scrittura la dimensione moderna dell’intellettuale, curiosa di quanto si muove intorno a lei in termini di linguaggi artistici. Per Heyer Caput è «pioniera della intermedialità dei linguaggi»: la trasposizione di Cenere nel 1916, in pieno conflitto mondiale, è evento cinematografico globale. Accanto ai «grandi romanzi sardi» vanno studiate opere che hanno come sfondo il paesaggio romano: non la Roma umbertina, papale, nemmeno la «Gerusalemme dell’arte», mito giovanile, ma la Roma minore dei quartieri periferici («passioni umane», «gioie e dolori»), vicina al suo sentire.

Quali le interpretazioni critiche? Marcello Fois la considera «madre del romanzo sardo»: nell’isola anche scrittori antideleddiani hanno fatto i conti con un sistema romanzo messo a punto da lei («in quella sua tendenza a costruire macondi luoghi … immensamente locali e immensamente universali»). Laura Fortini si interroga, invece, su una funzione Deledda nel Novecento italiano: quali «aggiunte» e quale «mutamento» ha apportato alla nostra letteratura? Per Dacia Maraini la scrittrice è «uno dei nostri classici più importanti», «una tra le madri letterarie» (Anna Maria Ortese, Anna Banti, Lalla Romano, Natalia Ginzburg, Elsa Morante).
Immune dalle mode del primo Novecento «estetismo, psicologismo, patetismo, sociologismo» perché «immersa», a Nuoro, in una cultura di profonda originalità. Questo significa, e non è poco, che Deledda è riuscita a vivere la globalizzazione senza smarrire l’identità.

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Durante gli ultimi mesi, molte sono state le occasioni in cui le opere di Grazia Deledda sono state celebrate e ricordate. Sia in sedi accademiche che di interesse generale, a voler significare un grande interesse intorno alla scrittrice nuorese. Oltre ai volumi che ne ricordano la biografia, altri arrivano a puntellarne le già edite opere letterarie; in particolare la sua postuma, e forse più nota, «Cosima» in una recente edizione critica, per la casa ditrice sassarese Edes, a cura dello studioso Dino Manca.

Dal romanzo di Marcello Fois, «Quasi Grazia», è stato tratto uno spettacolo teatrale per la regia di Veronica Cruciani (e produzione di Sardegna Teatro), presentato il 2 e 3 marzo (al Teatro Massimo di Cagliari e al Teatro Eliseo di Nuoro). Lo spettacolo debutterà nella quinta e prossima edizione del Festival sardo Éntula. Grazia Deledda verrà interpretata dalla scrittrice Michela Murgia.

Posta & risposta pubblicata sul manifesto del 1 aprile 2017

Le ultime ricerche smontano letture superate su Deledda e il regime fascista

Ho letto l’articolo di Paola Pittalis su Grazia Deledda che a mio avviso raggiunge toni agiografici decisamente sopra le righe: scelte e responsabilità che competono all’autrice e al giornale. Quello che mi pare inaccettabile è presentare la Deledda quasi come un’antifascista («A differenza di Pirandello, Deledda non saltò sul carro di Mussolini», «appare sempre meno disposta a subire censure da parte della redazione, soprattutto durante il fascismo»).

L’autrice dell’articolo e la redazione de il manifesto sanno o ricordano che Deledda fu l’autrice del libro di lettura per la terza classe in uso per parecchi anni nelle scuole fasciste dal 1930? Sanno che quello era uno dei «testi unici» che il regime aveva imposto nella scuola?

Sviste come questa sminuiscono la serietà di studi che avrebbero bisogno di competente attenzione.  Cordiali saluti.

Piero Fossati

La replica dell’autrice

L’articolo non usa «toni agiografici decisamente sopra le righe» ma propone nuove piste di ricerca, rese necessarie dal lavoro di scavo, negli ultimi anni, della critica su Deledda: ignorarlo significa costringersi a una lettura superata, che non può capire la modernità di una singolare esperienza di vita e di scrittura.

Poi il rapporto con il fascismo.

Partendo dalle biografie citate, l’articolo fa chiarezza su un tema complesso. Né «fascista» né «antifascista», nel significato che oggi diamo a queste parole: «Deledda sa “quale problema sia per gli artisti avere a che fare con un potere totalitario”, ma non coglie “la dimensione tragica” di ciò che accade in Italia».

Lo documenta il rapporto con il Corriere della sera, sempre segnato da apprezzamenti ma anche da «censure». Nel ventennio ci sono inviti ad affrontare temi cari al regime (il «ritorno alla terra», Borelli 7 aprile 1933) e rifiuti di testi (incoerenti con l’imperativo della «solidarietà nazionale», Borelli, 27 marzo 1935).

Deledda è talvolta arrendevole, talvolta insofferente in nome non di un’ideologia ma dell’indipendenza dell’arte. Dall’archivio emerge che Ojetti, direttore e garante verso il regime, non intende servirsi della collaborazione di Deledda che aveva lasciato il giornale per il Secolo (14 aprile 1927) ma, dopo il Nobel, fa rapidamente marcia indietro (18 novembre 1927).

Il libro della terza classe elementare (La Libreria Dello Stato Roma A. IX), infine, è ben noto, ma non costituisce elemento dirimente per definire l’adesione al fascismo di una scrittrice che non filtrava attraverso l’ideologia il rapporto con il mondo.

Affidandole l’incarico, il regime sfruttava il prestigio della scrittrice-Nobel, che accettò per le ragioni che costrinsero altre personalità, anche di indiscusso orientamento antifascista, a compromessi, indispensabili per vivere nel regime.

Paola Pittalis