Qualche tempo fa, Jorge Aleman, psicoanalista e filosofo argentino da anni impegnato in un’originale riflessione sul legame tra psicoanalisi e politica, pubblicava su Facebook un breve testo nel quale dichiarava, senza mezzi termini, la fine della psicoanalisi. Secondo il suo «comunicato», il contributo che la disciplina inventata da Sigmund Freud più di un secolo fa era stata in grado di portare allo sviluppo del pensiero avrebbe raggiunto e superato la sua «acme elaborativa», proiettandosi verso un inevitabile declino.

Una tesi provocatoria, sostenuta, coraggiosamente, in una fase di grande intrapredenza della comunità analitica, quando dunque questa contingenza storica sembrerebbe spingere verso conclusioni opposte. Il suo particolare interesse deriva dalla capacità di mettere in rilievo la distinzione tra compimento di un mandato socio-culturale e residua vitalità delle istituzioni che lo hanno preso in carico, tra inattualità intellettuale di un pensiero e capacità di sopravvivenza del gruppo che ne aveva favorito lo sviluppo, tra collasso di un sistema interpretativo e resistenza a prendere atto della propria inadeguatezza nell’intercettare lo spirito del tempo. Anche sull’esaurimento della funzione civile della letteratura e, di conseguenza sul discorso critico che le sta intorno si è molto scritto, sottolineando come sia tramontata la sua percezione del potenziale demistificatorio che le era tradizionalmente intrinseco, tanto che ripercorrerne la storia, valutarne gli esiti, preoccuparsi di insegnarla, non implica necessariamente contribuire alla vita sociale.

Forse anche per la psicoanalisi si impone la necessità di un cambio di paradigma, a patto innanzi tutto di capire cosa questo significhi. Per quanto si possa metterne in dubbio la pertinenza, la tesi di Aleman interroga una disciplina che, innegabilmente, fatica a stare al passo con i tempi, a volte cedendo a rimpianti nostalgici per un ordine simbolico (quello del patriarcato) ormai sorpassato, e tendendo a oscillare tra arroccamenti elitari e derive pop, mentre ammicca alle neuroscienze da un lato e cede all’imperio del cognitivismo dall’altro, nel tentativo di affrancarsi dalla fragilità del proprio fondamento epistemologico.
Di sicuro, l’originaria vocazione sovversiva del progetto freudiano sembra essere progressivamente sfumata: come se la funzione sociale e culturale della psicoanalisi si fosse esaurita nello sdoganamento di concetti ormai entrati nel discorso comune, generando perlatro – in alcuni casi – dannosi effetti di banalizzazione. Il ruolo svolto dalla sessualità infantile nella costituzione dei sintomi, l’importanza della funzione paterna e materna nella crescita del bambino, il valore significante del sintomo, l’importanza della relazione terapeuta-paziente nella cura della sofferenza psichica, tutto questo e altro ancora è stato assimilato e, in alcuni casi messo al servizio di quello che Lacan chiamava «Il discorso del padrone». Che fare, allora, per scongiurare l’esito al quale Aleman pensa che la psicoanalisi sia condannata? Siamo ancora in tempo per generare una nuova impennata dell’elaborazione teorico-clinica che giustifichi l’ambizione della psicoanalisi di svolgere anche un ruolo socio-culturale nella vita della polis? In un testo solo all’apparenza leggero e divulgativo – Pensieri di uno psicoanalista irriverente Guida per analisti e pazienti curiosi (Cortina, pp. 180, euro 16,00) Antonino Ferro sembra rispondere involontariamente ad alcune di queste questioni, sostenendo, intanto, la necessità di garantire alla psicoanalisi lo statuto di teoria debole, «che preserva un grande spazio per il cambiamento, che prevede la propria caducità e che mantiene una grande fascinazione rispetto al nuovo e allo sconosciuto».

Una teoria – aggiunge – «che preveda anche la propria estinzione» e che, in virtù di tale possibilità, sappia attivarsi per aprire il campo all’inesplorato, al non saputo, all’inedito. Il tutto – precisa Ferro – perché è fondamentale che la psicoanalisi continui a mantenersi come una «disciplina in grado di alleviare la sofferenza psichica». La questione che Ferro propone in più passaggi del suo libro riguarda il complicato rapporto tra rispetto della tradizione e dei riferimenti basilari della psicoanalisi (l’insegnamento dei grandi maestri che da Freud in poi hanno segnato l’avanzamento della disciplina) e l’auspicabile curiosità verso l’esplorazione di nuovi campi concettuali, clinici e intellettuali, consentendole di mantenere la propria specificità rispetto a tutte le altre psicoterapie senza, per questo, trasformarsi in «una scienza stantia che sa di muffa, che sa di abiti della nonna, proprio perché continua a usare un apparato concettuale del tutto desueto».

Per quanto implicita, l’analogia con la tesi di Aleman è evidente: la psicoanalisi è destinata a finire se non saprà associare al rigoroso legame con il suo passato il piacere di inoltrarsi in territori non ancora esplorati. Un esempio di questa possibilità rivitalizzante sta nell’ultimo saggio di Massimo Recalcati, La pratica del colloquio clinico Una prospettiva lacaniana (Cortina, pp. 284, euro 26,00) che riporta le lezioni tenute dallo psicoanalista milanese presso l’Università di Urbino a cavallo tra il 1998 e il 1999.

Quasi vent’anni sono passati da quell’insegnamento, ma la freschezza dello stile espositivo e la precisione degli argomenti trattati testimoniano di un felice connubio tra fedeltà al testo dei maestri e traduzione originale della dottrina psicoanalitica. La pratica del colloquio clinico – capitale nell’esercizio dell’ascolto – viene scomposta e spiegata nei dettagli, tradotta in logica e giustificata come raffinata operazione di accoglienza della domanda di aiuto.

Colpisce, in questo testo di un Recalcati ancora sconosciuto al grande pubblico, il richiamo continuo al deposito teorico psicoanalitico, ciò che non impedisce all’autore di declinare in maniera soggettiva, rivitalizzandolo, l’apparato concettuale che distingue il pensiero psicoanalitico: a dimostrazione di come si possa ancora efficacemente rianimare una disciplina in chiara difficoltà, evitando sia di paralizzarla nella compulsività di una asfittica esegesi dei maestri, sia di trasformarla in una seducente pratica di rassicurazione, ispirato da concetti psicoanalitici emotivamente risonanti, che rischia tuttavia di perdere il contatto con ciò che di più peculiare – e perturbante – è scritto nella sua storia.