Joe Stack, chi era costui? Cresciuto in un orfanatrofio nel vecchio quartiere industriale di Harrisburg, in Pennsylvania, dove ha visto intorno a sé l’impoverimento di quella che era la «classe operaia privilegiata», ha trascorso una vita travagliata tra debiti e tentativi falliti di autoimprenditorialità. Finché ha espresso il suo odio per il governo e i politici, per il salvataggio delle istituzioni finanziarie, per le multinazionali e le compagnie di assicurazione, in un suo «manifesto», consegnato ai posteri prima di lanciarsi nel febbraio 2010 con un piccolo aereo contro il palazzo dell’agenzia federale delle entrate ad Austin, in Texas. Per Noam Chomsky (intervistato da David Bersamian in Sistemi di potere. Conversazioni sulle nuove sfide globali, Ponte alle Grazie, pp. 185, euro 15) quella di Stack è «un’analisi profonda e convincente della società americana».

Non è facile inquadrare con precisione Chomsky. I suoi riferimenti intellettuali e politici, come bene emerge da queste conversazioni realizzate tra il 2010 e il 2012, vanno cercati soprattutto nella tradizione giuridica della Magna Carta e nell’orizzonte morale dell’illuminismo. Nelle sue analisi c’è tanto Dewey e poco materialismo, più Bakunin che Marx: l’attenzione è rivolta ai lati oscuri dei «sistemi di potere», come recita in modo azzeccato il titolo, mentre il capitalismo è tenuto sullo sfondo. Forse potrebbe essere definito un fustigatore della cattiva coscienza liberal americana, sempre pronto a denunciare l’incoerenza tra gli ideali propugnati dalla società a stelle e strisce e la realtà di oppressione che storicamente ne contraddistingue lo sviluppo. Da questo punto di vista, l’analisi di Chomsky è inequivocabile: a differenza delle altre nazioni, quella americana si ammanta di una missione «trascendente», da imporre con le armi e la conquista. È questa la teologia politica su cui poggia l’imperialismo degli Stati Uniti, a cui nessuno dei diversi governi si è sottratto. Vanno così in pezzi tutti i miti dei liberal americani: da John Kennedy allo stesso George Washington.

Chomsky invita alla prudenza nel parlare di declino americano: concede che ci siano state delle trasformazioni, ammette che si possa parlare di un indebolimento della capacità di attuare una politica egemonica (come il fallimento della guerra in Iraq dimostra), ma vede tutto sommato una continuità nelle forme del dominio imperialista. Insomma, i «sistemi di potere» emergono da queste pagine come immutabili e comunque invincibili.

Sono note le tesi chomskyane sul linguaggio, a cui è dedicato un capitolo specifico delle conversazioni: esiste nel cervello umano una facoltà innata che consente all’essere umano di apprendere il linguaggio, la cui acquisizione è dunque un fattore biologico. Non è questo il luogo per discutere tali tesi; va tuttavia segnalato l’apparente contraddizione tra lo scrupoloso impegno nello studio del linguaggio e il quasi completo disinteresse per la rete e i social media, liquidati come semplici sistemi dottrinari del potere volti a ridurre le persone alla passività e all’atomizzazione. I concetti dovrebbero essere strappati dall’empireo dell’astrazione indeterminata e immersi nella verifica dei processi materiali. Ma qui il discorso riguarderebbe i vizi del ruolo dell’intellettuale sopravvissuti all’esaurimento della sua funzione storica, e ci condurrebbe lontano.

Per restare sul punto, non si può dire che sia la produzione di soggettività al centro degli interessi di Chomsky. Il soggetto è sempre quello che ha in mano le leve del potere, così come la lotta di classe è esclusivamente quella condotta dai padroni. Chomsky è sicuramente attento ai movimenti, come le «primavere arabe» o Occupy Wall Street. E tuttavia, nel rimarcare la sostanziale caducità dei movimenti in termini di durata, Chomsky sottolinea a più riprese come a mancare siano il partito e il sindacato; solo questi possono restaurare un rapporto lineare tra lotte e sviluppo del welfare, come fu negli anni ’30 con il New Deal. Qui forse andrebbe prestata più attenzione a quello che lo stesso Chomsky sostiene in un’altra parte dell’intervista: «Circa la metà della popolazione pensa che tutti quelli che siedono al Congresso, compreso il loro stesso rappresentante, debbano essere mandati a casa. Per questo il centro non regge più». Non serve dunque limitarsi a denunciare le malefatte del potere o i drammatici rischi della fase attuale, ma dobbiamo anche saperne cogliere le potenzialità. Piaccia o meno, da questa scommessa radicale non c’è un fuori. Perciò l’alternativa alla disperazione nichilista di Stack non può che essere il ripensamento di una prospettiva di distruzione del capitalismo, che è un rapporto sociale di produzione e non solo un sistema di potere.