Era il 1984 quando lo storico americano Jeffrey Burton Russell scriveva che «ogni religione che non contempli l’esistenza del male non è meritevole di alcuna attenzione». Se ciò è vero, allora dobbiamo prendere atto del fatto che alla donna è stato conferito il ruolo di protagonista assoluto di questa trama malefica, poiché essa è stata di volta in volta raffigurata quale causa diretta, strumento consapevole o inconsapevole, e perfino generatrice mostruosa di mostri che a loro volta avrebbero riversato su di lei, oltre che su tutto il mondo, il male supremo dell’omicidi.
Prendiamo la visione religiosa secondo cui tutto il genere umano fa la sua comparsa in questo mondo gravato dal «peccato originale». Ebbene, nel caso della donna ci troviamo di fronte a quella che è stata descritta come una «colpa» ancora più essenziale. Una sorta di peccato nel peccato.
Il diavolo tentatore, infatti, raffigurato attraverso il serpente che convince Adamo ed Eva a contravvenire all’ordine divino, sarebbe riuscito nella sua impresa soltanto passando per l’anello debole rappresentato da Eva (si pensi alla donna identificata come «porta del diavolo» da Tertulliano).
È ella che, in quanto femmina, è stata vista come la creatura più vicina al Maligno, la più indisciplinata, sciagurata, irrazionale, quindi vulnerabile alle argomentazioni sottili di Lucifero.
Anche chi voleva «difenderla», come nel caso di Sant’Ambrogio, risolveva l’annosa questione se fosse più colpevole Adamo o Eva scagliandosi contro il primo, ma con l’argomentazione secondo cui la seconda non era particolarmente furba e, quindi, le andava riconosciuta come scusante quella della «stupidità».
Anche volendo prescindere da quella letteratura che ha visto in Lucifero (etimologicamente: portatore di luce), e quindi anche nella donna, coloro che hanno reso possibile l’inizio della «città dell’uomo», con conseguente emancipazione dal potere assoluto di un Dio egoista e geloso, è un fatto che quel grande trauma originario da cui è nato il mondo umano, con tutto il carico di fatiche, dolori e mortalità che ne è conseguito, è stato attribuito alla creatura «disastrosa» per eccellenza.
Tale visione, peraltro, trova un pendant significativo nella cosmogonia pagana. Per esempio in Esiodo, laddove in Opere e giorni la donna, raffigurata da Pandora con il suo vaso pieno di sciagure per l’uomo, viene creata da Zeus per inviare sulla terra quelle disgrazie che gli uomini si sono meritati in seguito al furto compiuto da Prometeo.
La questione è ampia e complessa, ma secondo le teologie femministe la maledizione inemendabile che grava sull’essere femminile deriva da un dato ritenuto tanto netto quanto arbitrario: la raffigurazione di Dio in quanto «uomo», «padre», «maschio».
Assunto sostenuto, per esempio, da San Tommaso, che riferendosi alla biologia di aristotelica memoria ritiene che Gesù sia uomo perché solo l’uomo avrebbe la pienezza dell’umana natura (la femmina è un «maschio difettoso»): solo il maschio, quindi, rappresenterebbe per lui il genere umano tutto, mentre la donna rappresenterebbe solo il sesso femminile e, soprattutto, non può rappresentare Dio e la sua mascolinità.
Lo snodo teologico è dirimente: l’universalità del sesso maschile (capace di cogliere in sé anche quello femminile) si staglia imperioso e imperante di fronte alla parzialità difettosa del sesso femminile. La donna stessa, del resto, è stata ritenuta durante tutta la storia della teologia non degna di rappresentare neppure l’immagine di Dio: l’uomo è fatto a immagine e somiglianza del Creatore, la donna no. E come l’uomo è sottomesso al Dio di cui è «immagine e somiglianza», così la donna deve essere sottomessa al maschio dalla cui costola è stata tratta, ancor di più perché sommamente e primariamente colpevole del peccato originale.
È proprio da qui che prende spunto il libro, documentato e pertinente, di Benedetta Selene Zorzi (Al di là del «genio femminile». Donne e genere nella storia della teologia cristiana, Carocci, pp. 263, euro 25).
Il dato di fondo che suscita interesse fin dall’inizio riguarda il punto di vista dell’autrice, che si declina a partire dalla triplice prospettiva di donna, teologa e monaca benedettina: «Iniziai a occuparmi del tema se la donna fosse creata a immagine di Dio contro la mia volontà, in occasione della stesura della mia tesi di dottorato in storia della teologia. Mi sembrava infatti una questione superata, un tema che riguardasse solo “vecchie femministe” in cui non mi riconoscevo e che ritenevo far parte di un mondo passato».
Come una novella Christine de Pizan, scrittrice e poetessa del XIV secolo, con origini italiane e un nutrito pacchetto di scritti volti a smascherare ironicamente i pregiudizi misogini, la Zorzi si propone espressamente di fare i conti con una vasta, nutrita e autorevolissima schiera di teologi che hanno «maledetto» la donna con argomentazioni spesso simili e confluenti.
Intento dell’autrice quello di far dialogare il femminismo della «terza ondata» (la prima è quella che, a partire dalla metà dell’Ottocento, rivendicò parità di condizioni sociali; la seconda è quella che originò negli anni Sessanta del Novecento per approdare agli esiti radicali della «teoria della differenza» e dei gender studies) con gli studi teologici più avanzati.
Se è vero che, come ha affermato la pioniera degli studi di genere in teologia, Kari Elisabeth Børresen, «il femminismo ha costituito per la nostra cultura una vera e propria “rivoluzione epistemologica” con la quale la teologia non deve avere paura di misurarsi», allora, ne deduce la Zorzi, è arrivato il momento di recuperare uno dei messaggi forti del Concilio Vaticano II: esso ha posto la Bibbia in mano al popolo, quindi, anche alle donne.
Ed è proprio dalla prospettiva di una donna che legge la Bibbia che l’autrice si chiede come sia possibile che Gesù avesse favorito in molti modi le donne, mentre quella che si definisce la sua Chiesa le abbia escluse con tale vigore.
Per trovare risposte a questi e altri quesiti, l’autrice si concentra soprattutto sull’analisi della patristica, convinta che quel periodo e quei teologi abbiano costituito la piattaforma della riflessione teologica sulla donna dei secoli a venire.
Il limite, semmai, forse dovuto all’ottima dottrina snocciolata, però, con un eccesso compilativo e un profluvio di riferimenti, è che spesso tende a sparire la posizione dell’autrice, per esempio laddove non rimarca il debito oggettivo che la patristica deve al pensiero greco e pagano (Sant’Agostino è tanto incomprensibile senza tenere presente Platone, quanto lo è San Tommaso senza tenere a mente le dottrine di Aristotele), o dove non affronta il tema scottante e irrinunciabile dell’ordinazione femminile che la Chiesa, anche dopo il Concilio Vaticano II, si ostina pervicacemente a non prendere in considerazione. Innovativa e coraggiosa, invece, la critica speculare di Balthasar e del pensiero della differenza, incapaci entrambi di superare la logica binaria che esclude la possibilità dell’«altro».
Limiti e pregi di un’opera comunque utile e proficua, anche per quegli «uomini disposti a osare il maschile» a cui l’autrice dedica il libro.