Peccato che a guardarlo da fuori non si capisca, non il nome sulla copertina, nel risvolto o nel titolo: nulla spiega che La ragazza che sognava il cioccolato di Roberto Olla (La compagnia del libro, pp. 158, 10 euro) racconti la storia di Ida Marcheria, italiana, triestina, ebrea, deportata ad Auschwitz. Sopravvissuta allo sterminio industrializzato – del quale la sua testimonianza dà conto – morta a Roma nell’ottobre di tre anni fa. Cioccolataia .

Ida Marcheria era una persona speciale: aveva occhi neri e penetranti, era sottile e nel suo laboratorio di cioccolato e marron glacés nel quartiere africano a Roma andavano in tanti, non solo gente del quartiere e non solo a comprare. Negli ultimi anni Ida Marcheria era malata e stanca ma era, anche, arrabbiata: «con l’Italia in cui viveva – scrive Olla – con le sciatterie delle strade sporche e dei soldi facili, con le svastiche ignorate ed ignoranti sui muri, con le lapidi oltraggiate al cimitero ebraico, con le parole razziste… Arrabbiata con chi non aveva bombardato lei, i deportati e tutti i nazisti ad Auschwitz, con i partigiani che non avevano fermato un solo treno per non sprecare una bomba». Il volume è il risultato di un lavoro pluriennale. L’autore è Roberto Olla, giornalista della Rai, curatore di interessanti documentari sulla Shoah – in onda su Raiuno il prossimo 24 gennaio quello sull’incontro tra Piero Terracina, anch’egli ex deportato ad Auschwitz, con i detenuti di Rebibbia e la diretta del 27 gennaio su Rainews24. Olla ha realizzato molte interviste con Ida Marcheria, un rapporto che con il trascorrere degli anni è diventato amicizia: da questo nasce La ragazza che sognava il cioccolato, che condensa nelle parole intrecciate di Marcheria e di Olla le grandi questioni che la testimonianza della Shoah pone alla coscienza contemporanea.

Un volume semplice e privo di retorica con un inquieto intrecciarsi di passato e presente. Nata a Trieste Ida Marcheria «non si accorse delle leggi razziali – scrive Olla – Un suo diritto, di bambina». «Non ho mai visto la Croce Rossa – racconta Ida – né all’andata né al ritorno, mai vista. Anche i partigiani non si sono fatti vivi. Ci hanno caricati – commenta descrivendo il momento in cui lei e la sua famiglia vennero fatti salire sul treno – e tanti ci hanno visto caricare, ma non c’è stata nessuna reazione, di nessuno. Mai». Nessuno treno della deportazione è stato fermato. Ma è il presente, il «dopo», a intrecciare il racconto: «Quale è la prima data che ricorda una bambina? Ida ricordava l’8 settembre, quando entravano i tedeschi a Trieste e tutta la città era sconvolta (…). Ogni anno l’arrivo dell’8 settembre la rendeva ansiosa. Apriva i giornali, fin dall’alba accendeva la radio e la televisione. Niente, diceva con un’ aria di rimbrotto. Non ne parlano. Bisogna ricordarsi dell’8 settembre, quella è la data centrale, così diceva e non ammetteva repliche».

Nelle pagine vi è una dimensione corale, l’amicizia di un piccolo gruppo di persone, che si incontrano nel laboratorio di cioccolata, ex deportati che «chiacchieravano, anche del più e del meno. Oppure tacevano». Dietro al bancone di metallo lucido si incontrano, e il libro ne riporta parole e presenze, anche Piero Terracina, Sami Modiano, Shlomo Venezia: «Ida e Shlomo erano stati insieme a Birkenau, ricordavano il giorno della rivolta, le urla dei nazisti, le raffiche di mitra, le voci lontane che imploravano: “sauna, kanàda, aiutateci”. Ida impotente bloccata dentro il reparto kanàda, lui terrorizzato, chiuso assieme agli altri del suo Sonderkkomando davanti ai forni». «Nel libro – scrive nella prefazione Piero Terracina – ci siamo noi, riga dopo riga. Il lager come lo abbiamo raccontato, le nostre parole riportate con assoluta fedeltà».

Il volume è corredato da un saggio conclusivo di Donatella Di Cesare su «Testimonianza e negazione» e da una raccolta di acquarelli di Gianni Carino, una storia nella storia.

«Per Ida tornare ad Auschwitz era una sofferenza – scrive Olla – Testimone e sopravvissuta, così la volevano nei viaggi organizzati per gli studenti. Sopravvissuta si, ma non in un tempo passato. Sopravvissuta oggi, uno stato perenne della sua esistenza». Un dolore che prendeva corpo anche quando si arrabbiava con la retorica del perdono: «Non devono neppure chiederlo a me di perdonare – ripeteva scuotendo la testa – Devono chiederlo a mia madre. A tutta la mia famiglia, a tutto il mio treno, a tutti quelli finiti nelle camere a gas lo devono chiedere. Io non devo perdonare, io non posso perdonare al posto loro».