Sono passati vent’anni da quando, nel 2001, il governo di centrodestra decise di abolire la tassa sull’eredità, che nel nostro paese si basava su aliquote alte e progressive. Berlusconi motivò il provvedimento con l’argomento che avrebbe giovato all’accumulazione del capitale e alla crescita economica. In realtà è stato un premio al familismo, che ha cristallizzato e aggravato la distanza tra ricchi e poveri.

Il tema della proprietà, della sua trasmissibilità, del suo rapporto con la libertà e con l’uguaglianza appassionava già i filosofi dell’illuminismo. Per Jean-Jacques Rousseau «il diritto di proprietà per sua natura non si estende oltre la vita del proprietario e quindi, nel momento in cui un uomo muore, i suoi beni non gli appartengono più». Nella nascente borghesia del XVIII secolo erano dunque presenti e attive correnti di pensiero che mettevano in discussione l’ereditarietà dei patrimoni privati. La proprietà era un diritto «individuale». L’eredità era considerata un retaggio del passato, un’antica usanza, una norma da superare e, comunque, da limitare.

I solerti commentatori, sempre gli stessi, che quotidianamente criticano tutto ciò che, a loro avviso, intralcia la crescita economica, la concorrenza, la valorizzazione del capitale umano, la meritocrazia, non ebbero nulla da eccepire. L’indebito vantaggio ai figli dei ricchi (o, meglio, la restaurazione di un vero e proprio privilegio feudale) fu allora accolto dalla soddisfatta approvazione della stampa borghese e “indipendente”.
Il centro-sinistra, con il governo Prodi, nel 2006 ha reintrodotto la tassazione dell’eredità, ma in una forma così sbiadita ed edulcorata da avere una rilevanza meramente simbolica.

In base alla legge vigente, quando in Italia muore un ricco signore, il suo patrimonio finanziario e immobiliare entra, come si dice, in successione e viene suddiviso tra gli eredi. Ognuno di loro gode di una franchigia di un milione e, sopra questa cifra, il valore tassato sulla quota ereditata è del 4 per cento. Se poi il ricco signore è pure padrone di un’impresa e gli eredi s’impegnano a continuare l’attività di famiglia per almeno cinque anni, l’esenzione è totale. Sono questi i motivi che collocano l’Italia in fondo alla classifica dei paesi dell’Ocse in fatto di prelievo fiscale sui trasferimenti ereditari. In Giappone si applicano aliquote fino a un massimo del 55 per cento. In Francia le aliquote arrivano al 40 per cento, negli Usa e nel Regno Unito al 30. E così via.

In questo ventennio la dimensione e il valore dei patrimoni si sono notevolmente incrementati. Di contro l’ascensore sociale si è fermato e le diseguaglianze sociali sono aumentate. Lo Stato italiano, dalle imposte sui trasferimenti ereditari e sui lasciti (il cui valore è pari al 16 per cento del reddito nazionale), incassa annualmente un misero 0,05 delle entrate totali. Uno scandaloso beneficio, di cui i coraggiosi giornalisti “liberali” preferiscono non parlare. Meglio prendersela con il reddito di cittadinanza!

Ci troviamo davanti a un perfetto caso di scuola un uso di classe del diritto. Una legge costruita a immagine dei ceti alto-borghesi e dei rentiers (beneficiari di rendite). Che recide qualsiasi legame tra diritto di proprietà e bene comune. Il diritto individuale degli eredi ha la meglio sul diritto della collettività. Il nostro paese sta pagando un prezzo molto alto per questo. La crescita sproporzionata della rendita esercita un peso negativo sull’insieme dell’economia.

Il Forum delle diseguaglianze, in un suo rapporto, sostiene che non è più differibile un intervento che modifichi l’attuale legislazione sulle imposte di successione. Si tratta di abbassare il livello attuale delle franchigie e di introdurre aliquote progressive, in base all’entità dei patrimoni, fino a un massimo del 50 per cento. Questa è una delle chiavi per ridurre la ricchezza che si concentra nella parte più facoltosa della popolazione (il famoso 1 per cento) e per trasferirne una parte alle nuove generazioni.

Dalla tassazione dell’eredità potrebbero essere ricavate le risorse necessarie per istituire una “eredità universale” per i giovani, un fondo ad integrazione e completamento della legge sull’assegno unico per i figli. I giovani con poche disponibilità finanziarie, a partire dal diciottesimo anno, sarebbero messi in condizione di continuare un percorso formativo o investire in un’attività, senza i condizionamenti (discriminatori) del mercato del credito.