Serve una svolta»; oppure: «Ci vuole un governo di svolta»: sono frasi che ripetiamo ogni giorno, noi a sinistra così come quelli che la vorrebbero ma in direzione opposta; e anche quelli che si perdono nel vago labirinto delle ipotesi.

Io mercoledì sera, alla Biennale cinematografica di Venezia in corso, ho visto un film che ci dà uno straordinario contributo a imboccare la strada giusta per il cambio che noi (un noi molto più ampio di quanto ci rappresenta in Parlamento ) vorremmo.

Non è una «aggiunta» al programma di governo, è una premessa indispensabile per rendere credibile ogni progetto di democratizzazione del nostro paese da sempre inquinato da poteri occulti che non siamo riusciti, o non si è voluto, colpire.

Lo ha voluto, interpretato, diretto e prodotto (insieme a Didi Gnocchi) Carolina Rosi. Si chiama «Citizen Rosi» e ci racconta, attraverso i film di suo padre Franco, più di mezzo secolo della nostra storia più oscura; ma anche più bella.

Perché ci riporta in memoria una pagina straordinaria del cinema italiano, e in particolare di un cittadino, Franco Rosi, che con i suoi film non ha solo inventato una nuova cinematografia, ma che, con la sua macchina da presa, ha con coraggio indagato e portato alla luce quanto è stato occultato da trasversali poteri.

NON SOLO un regista, dunque, ma un vero investigatore, uno storico, e un cittadino che non teme di denunciare. (Lo riconosce, commossa, Rossana Rossanda, come risulta da una sua lettera a Rosi che appare in bella evidenza nel film ).

I preziosi spezzoni cinematografici non appaiono nella pellicola secondo l’ordine cronologico della loro realizzazione, ma di quella del tempo cui si riferiscono, perché – come ho detto – si tratta di storia.

SI COMINCIA da lontano, da quando Franco Rosi era ancora solo un ragazzo aiuto regista di Visconti, in quel «La Terra Trema» del ’48, che ci fece scoprire per primo –a noi nordici – il sud del nostro paese.

E poi via via, per citarne solo alcuni ( ma è bello ritrovare i titoli di tutti ): «Il bandito Giuliano» (con già le prime trame di Stato del dopoguerra); «Lucky Luciano» (il primo accordo mafia-servizi segreti, americani in questo caso); «Il caso Mattei»; «Le mani sulla città», con Fermariello, segretario della Camera del lavoro di Napoli, che diventa protagonista del film ( all’inizio il Pci partenopeo non voleva, gli sembrava poco serio che un dirigente sindacale facesse l’attore, poi Amendola ruppe gli indugi dicendo: anche il cinema è politica!).

E, ANCORA, «Cristo si è fermato ad Eboli», che ci regala le prime immagini di una regione a lungo «clandestina» – la Basilicata (un ironico filmetto di qualche anno fa un giovane regista racconta che si è alla fine staccata dalla penisola italica e naviga perduta per i mari, ma nessuno se ne è accorto).

Nello spezzone riportato in «Citizen Rosi» si vede Carlo Levi che lascia il confino e il popolo contadino di Avolio dove ha trascorso lunghi anni che si stringe all’auto quasi a non volerla fare partire, un’immagine struggente, da cui traspare la consapevolezza che con quell’addio si spezza per loro il fragile filo che gli aveva fatto intravedere il mondo.

IL VOLTO DI LEVI come quello di Luky Luciano e di Enrico Mattei e di tanti altri protagonisti delle pellicole è quello indimenticabile di Gian Maria Volonté, «un attore così grande da poter interpretare con naturalezza un mafioso così come un eroe» – dice Rosi a Carolina, mentre scelgono assieme, ripresi da una piccola videocamera, gli spezzoni delle pellicole da inserire in quello che al momento è solo un progetto non definito; verrà realizzato solo dopo la sua morte.

MA VENGO AL PUNTO importante che riguarda «le svolte» di cui ho parlato all’inizio, del perché questo film non può non rientrare nelle nostre attuali riflessioni sul governo e i governi possibili: all’opera di Franco Rosi Carolina ha aggiunto un pezzo di documentario prezioso: le interviste ad alcuni magistrati in prima linea: Vincenzo Calìa, attualmente sostituto procuratore a Milano e che però nel 1994, Pm a Pavia, poco lontano da dove precipitò l’areo con a bordo il presidente dell’Eni, indagò sull’incidente e dimostrò poi in un libro – «Il caso Mattei» – che si era trattato di un attentato in cui erano implicate, come provò in seguito la vicenda P2, alte personalità; il giudice Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria e quindi a Catanzaro; Nino Di Matteo, direzione nazionale antimafia, Pm al processo sulla trattativa Stato-Mafia; Gerardo Colombo.

E INTERVISTE ad alcuni giornalisti di battaglia: Franco La Licata e Lirio Abbate in particolare perché hanno scavato per conto loro, a partire dalle intuizioni dei film di Rosi, su quanto è tuttora rimasto occultato.

MOLTISSIMO e gravissimo. Possiamo andare ancora avanti facendo finta di niente, o non è venuto il momento, se davvero si vuole cambiare, di rendere giustizia alle vittime – quelle antichissime di Portella della Ginestra de «Il bandito Giuliano» ( che emozione rivedere le immagini del film, di cui gli specialissimi attori furono gli stessi che erano stati presenti all’eccidio, e dissero a Franco: sembra proprio come fu) e a tutti gli altri che in tempi ancora recentissimi, a rischio della vita, hanno cercato di far luce?

Soprattutto: vogliamo cercare di liberare l’Italia delle nere ipoteche che tutt’ora pesano sulla nostra democrazia?

INTANTO GRAZIE a Carolina Rosi. Quel divanetto dello studio di Franco Rosi, a via Gregoriana,che è il set di «Citizen Rosi» lo ricordo bene per le tante chiacchiere intrattenute con Franco negli ultimi suoi anni di vita. L’ultima volta fu perché ero andata a fargli vedere una «copia-lavoro» di un film che stava preparando Agostino Ferrente,«Le cose belle», su Napoli, la città da cui Rosi non è mai partito.

LA CASA DI PRODUZIONE di Carolina si chiama : «Andiamo avanti productions». È un buon nome anche per tutti noi. E per tutti i nuovi giovani registi italiani.