«Ricordo ancora la notte che gli israeliani bombardarono la mia università. Non potevo crederci. Al mattino Shady ed io andammo al campus. Ci trovammo di fronte ad una scena terribile». Musab Abu Toha ricorda quei momenti come se fosse accaduto tutto ieri. «Non avevano distrutto l’intero ateneo ma una parte di esso, quella con la biblioteca. Tra le macerie vedemmo dozzine di libri bruciati, anneriti. Tutta la sezione in lingua inglese era andata perduta. Amiamo leggere testi in inglese e potevamo farlo solo lì, all’università. Israele oltre a lanciarci contro le bombe ci negava il diritto a leggere e istruirci». Shady annuisce, resta in silenzio. Mosab ha raccontato bene anche il suo stato d’animo in quei momenti. Da quell’offensiva militare, “Margine Protettivo” nell’estate del 2014, costata la vita di circa 2.300 palestinesi e la distruzione di migliaia di case ed edifici civili, è sorto il desiderio di tanti abitanti di Gaza di ricominciare a dispetto delle enormi difficoltà. La vista di quei libri bruciati diede a Musab e Shady la forza per mettere in piedi un progetto unico per Gaza: aprire una biblioteca con testi in lingua inglese da mettere a disposizione dei due milioni e passa di abitanti. E i due giovani, ora ex studenti universitari, l’anno scorso sono riusciti a realizzare il loro sogno.
Accogliendo l’appello che lanciarono sui social, centinaia di persone di tutto il mondo, anche italiane, hanno inviato a Gaza migliaia libri, spesso accompagnando ai testi anche delle donazioni che hanno permesso l’affitto di un appartamento e l’acquisto di scaffali e scrivanie.

«Benvenuto nella Edward Said Public Library» ci dice Mosab accogliendoci nell’appartamento sulla strada principale della poverissima Beit Lahiya, nel nord di Gaza, che assieme a Shady ha trasformato in una biblioteca. «Porta il nome dello studioso palestinese che amiamo di più e che meglio di chiunque altro ha spiegato le origini e le responsabilità della condizione del nostro popolo al quale è stata strappata la terra» spiega facendoci strada verso la sala che ospita la maggior parte dei volumi. Shady è più timido rispetto al suo amico. Ma scioglie la lingua quando deve raccontarci la gioia che ha provato di fronte alla risposta all’appello lanciato in internet. «Abbiamo ricevuto libri dal Canada, dal Giappone, dagli Stati Uniti, dall’Italia e da tanti Paesi. È stato entusiasmante, siamo rimasti senza parole di fronte a tanta solidarietà. Tutte quelle persone che ci stanno aiutando, centinaia, ora sono nostre amiche. Abbiamo contatti continui con loro». Tra i donatori ci sono anche una anziana signora israeliana e un intellettuale di grande fama, Noam Chomsky. Il linguista e politologo americano ha inviato alla biblioteca di Beit Lahiya alcuni volumi autografati e un messaggio: «È stimolante vedere come persone che a stento sopravvivono in quella prigione che è Gaza, soggette a un costante e feroce attacco da parte di Israele, in situazioni di deprivazione, continuino a conservare la loro dignità e si impegnino per costruire una vita migliore». Il progetto, aggiunge Chomsky, «di una biblioteca a Gaza costituisce un esempio chiaro di questi sforzi eccezionali e rappresenta un contributo significativo all’arricchimento culturale dei palestinesi di Gaza e offre loro una possibilità per un futuro migliore».

Le parole dell’intellettuale Usa, ci dice Mosab, spiegano alla perfezione l’idea che è dietro l’iniziativa che ha messo in campo assieme a Shady. «È un impegno per la nostra terra», afferma appoggiandosi a una scrivania colma di libri arrivato da poco di autori che hanno segnato la cultura mondiale, dalla narrativa alla filosofia, negli ultimi cento anni: Theodor Adorno, Albert Camus, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre, Gabriel García Márquez, solo per citarne alcuni di quelli davanti ai nostri occhi. «Questa biblioteca – aggiunge – è a disposizione di tutti gli abitanti di Gaza, giovani e anziani, bambini e genitori, in modo che possano avere un posto tranquillo dove leggere libri che non si trova trovare da altre parti ed arricchirsi conoscendo autori e altre culture». Interviene Shady. «Vogliamo che la Edward Said Public Library diventi qualcosa di più di una biblioteca. Dovrà essere un luogo di incontro, di discussione, dove presentare libri e che permetta agli scrittori e ai poeti di Gaza, ce ne sono tanti, di farsi conoscere e di poter rendere pubblici i loro lavori».

Mosab e Shady non puntano a conquistare il favore solo dell’elite di Gaza, quella minoranza esigua di abitanti che può permettere ai propri figli di frequentare le scuole private e di mandarli anche a studiare all’estero – ammesso che riescano ad ottenere da Israele ed Egitto il permesso per poter uscire da Gaza -, ma a chi non ha mezzi. Essi stessi sono giovani che vengono da famiglie povere, quelle lottano ogni giorno per sopravvivere. Shady è disoccupato come gran parte dei giovani di questo martoriato lembo di terra palestinese. Mosab è un’insegnante precario, lavoro con cui finanzia la sua vocazione di scrittore. «Gaza è popolata da persone meravigliose che però hanno poco accesso alla cultura», ci dice spiegandoci che prendere un libro in prestito non è facile, è una facoltà riservata quasi sempre solo a chi studia all’università. Le cinque biblioteche esistenti sono quasi sprovviste di libri in lingua inglese. «Il nostro progetto sta colmando un vuoto e lo amplieremo molto presto grazie agli amici di ogni parte del mondo che stanno aiutando Gaza», proclama Shady annunciandoci, sorridente, il prossimo trasferimento della biblioteca in un appartamento più grande ma, rigorosamente, ancora a Beit Lahiya.