Quante volte nel leggere un fumetto ci siamo immedesimati talmente col protagonista da renderlo quasi uno di famiglia? Perché possiamo «stramaledire le donne, il tempo ed il governo» ma, se siamo appassionati di una testata, che possa essere Tex, Batman, Zora la vampira o anche solo il classico Topolino a braccetto con Tiramolla, quegli uomini o donne, di inchiostro e baloon, diventano l’amico che non ti tradisce mai, mese dopo mese, pronto a tirarti su o farti fare una gran bella risata. Se siamo dei veri fan sappiamo che il mondo dei fumetti poi è un universo complesso dove i nostri eroi non si limitano a salvare la terra o belle ragazze in pericolo, ma, nel tempo libero, ascoltano canzoni, guardano film o hanno hobby, meno epici delle loro avventure, come nel caso di Dylan Dog che, da tempo immemore, armeggia con colla e compensati per costruire un modellino di un galeone. Le passioni musicali dei vari personaggi sono varie e passano dalla classica al jazz fino all’heavy metal più duro e potente, a volte un albo ha persino una vera colonna sonora, come un film. Magari di questo non ce ne accorgiamo perché troppo presi dalla lettura o perché alla fin fine un fumetto è un mondo silenzioso, ma siamo qui per dimostrare anche il contrario, di come questo strano e silente universo sia un microcosmo di musica ascoltata e a volte sparata a volume così alto come faremmo noi nella vita di tutti i giorni.

GRANDI FIRME

Tiziano Sclavi è una delle grandi firme non solo del fumetto italiano, ma della nostra letteratura moderna. Libri come Dellamorte Dellamore, Nero., Mostri o Le etichette delle camicie sono, malgrado l’insuccesso commerciale di alcuni di essi, opere di una bellezza travolgente, appassionate, kafkiane, complesse e emozionanti. Uno dei suoi parti più felici è senza dubbio Dylan Dog, un blockbuster editoriale che, a distanza di anni, ancora fa parlare di sé attraverso mutazioni, invenzioni e trovate narrative che rendono il personaggio non solo eternamente giovane anagraficamente ma anche, cosa più importante, nella testa. In un’intervista alla Stampa del 2005 così si raccontava l’autore: «La vita del mio indagatore dell’incubo è piena di avventure e misteri, di donne affascinanti e personaggi bizzarri, dove una parte importante è riservata alla musica. Suonata dallo stesso Dylan, ascoltata quasi per caso in un pub, nascosta nei testi, oppure esibita, con tanto di canzoni tradotte in italiano. Nel fumetto sento molto la mancanza della colonna sonora. La immaginerei come nei film di Kubrick: un gran miscuglio di musica classica, Bach, Iron Maiden e Yngwie Malmsteen. Sono riuscito a inserire una canzone napoletana, Te voglio bene assaje: la cantava un posteggiatore, all’ingresso di una pizzeria. I suoi amori sono, ovviamente, i miei. Ho cominciato con l’heavy metal, ma presto sono passato a De André e Guccini, che rimangono per me grandi fonti di ispirazione, come Vecchioni e De Gregori. Più tardi, molto più tardi, è arrivata la musica classica, con due brani: l’Aria sulla quarta corda di Bach, che poi è la sigla di Quark, e la Moldava di Smetana».

Per comprendere l’importanza della musica in Dylan Dog basta prendere in mano non solo una classica storia scritta da Sclavi, che sceneggia pochissimo negli ultimi decenni, ma un qualsiasi albo della testata ora in edicola.

Nel numero 385 dello scorso ottobre, Perderai la testa, scritto da Barbara Baraldi e disegnato da Emiliano Tanzillo, già le prime pagine fanno comprendere perfettamente questo assunto: nella fashion week di Parigi avviene una terribile tragedia, una modella perde letteralmente (e sanguinosamente) la testa durante una sfilata. La scena viene commentata, come in un film, dalla martellante colonna sonora dei Primal Scream e dalla loro Miss Lucifer; e così tra uno «Shake it baby, all night long, shake it baby, shake!», e uno «Skinny girl dressed in black, leather boots, tatooed panther, vampire cape, sexy dancer, Magdalene grace» («Ragazza magra, vestita di nero, stivali in pelle, panther tatuato, capo vampiro, ballerina sexy, la grazia di Maddalena») viene enfatizzata quella che sulla carta è già una sequenza shockante: una farfalla di sangue, bellissima anche tra le urla disperate del pubblico.

Se passiamo invece all’albo speciale 32, sempre di ottobre, dal titolo Nel nome del figlio, spicca prepotente la copertina disegnata che vede un Dylan Dog zombi, ad opera di Marco Mastrazzo, risorgere spaventoso dalla tomba. Questa non è altro che un omaggio alla cover di Live After Death del 1985 degli Iron Maiden, la quale mostra Eddie, la mascotte del gruppo, non solo nella stessa posizione dell’indagatore dell’incubo, ma con lo stesso epitaffio inciso sul tumulo dei due, «That is not dead which can eternal lie, and with strange aeons even death may die» («Non è morto ciò che può giacere in eterno, e in strani eoni anche la morte può morire»), tratto da Il richiamo di Cthulhu (1928) di H.P. Lovecraft. A impreziosire l’omaggio/citazione musicale è un albo eccezionale che riporta, come pochi altri, il Dylan Dog delle origini, quello surreale di classici come Morgana, in un contesto differente ma non distante dagli umori sclaviani che da tempo questo personaggio ha purtroppo abbandonato.

Il nostro eterno ragazzo con i suoi 33 anni perenni, dalla camicia rossa e l’assistente ciarliero, tra un caso da risolvere e l’altro, però non disdegna lui stesso di ascoltare la musica e, a volte, stuprarla, come del caso del Trillo del diavolo, sonata per violino in sol minore di Giuseppe Tartini, e riproposta in un suo, a detta dei vari ascoltatori, terribile rifacimento col clarinetto.

Gli Iron Maiden comunque sono il gruppo che Dylan Dog, nei primi anni di vita, ascoltava con più frequenza, in macchina, in radio, su giradischi, e come lui molti altri personaggi del suo universo. Come capita, per esempio, nel numero 58, La clessidra di pietra, testi di Claudio Chiaverotti, l’autore di Brendon e Morgan Lost, e disegni di Corrado Roi, dove troviamo un giovane fan della musica heavy metal, lì lì per massacrare un padre troppo severo, intento prima ad ascoltare The Number of the Beast (1982), e poi Still Life (1983). Inoltre sullo sfondo, se facciamo attenzione, possiamo trovare dischi dei Manowar, dei Motörhead, degli Scorpions e dei meno famosi Baphomet, che, stando a Wikipedia, potrebbe essere sia «una band statunitese death metal” che una «tedesca di death e thrash metal». Ci sono poi due manifesti appesi nella camera del ragazzo: uno dei Death Angel, e uno dei Sex Pistols, in un numero che trasuda passione musicale senza però avere come tema specifico la musica stessa, d’altronde, come si sa, alcuni amori risiedono nel dna.

Facendo un passo di centinaia di numeri, nel 358, La mano sbagliata, sceneggiatura della brava Barbara Baraldi e disegni di Nicola Mari, in due momenti fanno capolino due canzoni, Hurt dei Nine Inch Nails e in seguito She’s Lost Control dei Joy Division, ascoltate in solitario, o con la compagnia di Dylan Dog, dalla bellissima Anita Novak, artista amputata forse col vizietto dell’omicidio. Certo è che siamo in un albo meno metal e sicuramente più dark, in linea con una storia sinuosa, erotica e decadente come una bellissima poesia di Edgar Allan Poe.

Il Dylan Dog degli albori però non è del tutto perduto, sicuramente il personaggio è cresciuto, si è evoluto, e non è più, per fortuna o sfortuna, lo stesso dell’esordio, quel 1986 che per molti fu l’avvento di un messia. In Al servizio del caos, storia di Roberto Recchioni e disegni di Angelo Stano e Daniele Bigliardo, uno degli albi del nuovo corso della testata, una vera rivoluzione concettuale del personaggio, scopriamo che il nostro indagatore dell’incubo per concentrarsi meglio ascolta ad alto volume in macchina Raining Blood degli Slayer. Ecco quindi che ritroviamo un amico e in fondo lo appoggiamo quando la fidanzata di turno, pesante e pedante come chi la musica non la ama, gli chiede di ascoltare qualcosa di più rilassante. Quante volte è capitato anche a noi?

TRATTI

Mister No è uno dei personaggi più famosi di Sergio Bonelli, il suo figlio più celebre dopo Zagor.

Nessuna ambientazione western (anche se all’inizio, per vendere meglio il fumetto, si pensò di disegnarlo, nelle copertine, con un vistoso cinturone da cowboy), ma tante località esotiche, soprattutto l’Amazzonia, e un fresco amore per l’avventura di matrice salgariana.

Si tratta di un personaggio atipico, il primo antieroe della casa editrice, un uomo dai mille difetti ma dal cuore puro, un ex pilota militare, reduce della seconda guerra mondiale, amante dell’alcool e delle belle donne. Forse proprio per questa sua natura così smaccatamente umana che Jerry Drake, vero nome dell’eroe, è sempre stato uno dei personaggi più amati dagli appassionati, meno pedante di un Tex Willer e meno pudico di uno Zagor dai tanti limiti morali. Nello speciale numero 2, C’era una volta a New York, sceneggiatura di Maurizio Colombo e Luigi Mignacco, disegni di Orestes Suarez e Giovanni Bruzzo, riscopriamo un Mister No inedito, adolescente nel 1936 tra le strade di Manhattan. Si tratta di uno splendido albo di ben 386 pagine, scritto nel 1999 e rieditato quest’anno in edizione lussuosa, dove si analizzano soprattutto i due grandi amori del personaggio, il cinema e la musica. In una sequenza memorabile vediamo il ragazzino intrufolarsi in una chiesa e ascoltare la classica Oh when the Saints Go Marching in resa immortale in chiave jazz da Louis Armstrong, interpretata qui però da un gruppo gospel. Dalla voce del Jerry Drake ragazzo percepiamo tutta la sua passione per quelle sonorità black: «Naturalmente visto che ero un bravo ragazzo non mi limitavo alla frequentazione di locali equivoci… Trovavo anche il tempo per pensare alla mia anima… Non c’era niente di meglio di una chiesa in un quartiere di gente di colore per sentire della buona musica… Io andavo in quella dove Ray suonava l’organo… Non mi perdevo una messa domenicale… Mi sembrava di essere in paradiso… Fu lì che ascoltai la canzone che ancora oggi non ho smesso di cantare…». C’era una volta a New York è un grandissimo albo a fumetti, sceneggiato e disegnato in stato di grazia, capace di appassionare e commuovere, un’odissea metropolitana che prende spunto daal quasi omonimo film di Sergio Leone, C’era una volta in America.

Ma l’albo di Mister No che più di ogni altro ha pezzi musicali ascoltati e cantati è senza dubbio Rio Negro, numero 13 del 1976, un’avventura che si dipana per ben 4 numeri, densa di colpi scena, sceneggiata da Sergio Bonelli sotto il suo abituale pseudonimo di Guido Nolitta e disegnata dal compianto Gallieno Ferri e da Roberto Diso. Nell’arco delle 313 pagine assistiamo a uno sfortunato chitarrista messicano che canta Cucurucucu Paloma, all’esibizione di Dana Winter, amico di Jerry Drake, in My funny Valentine, pezzo jazz reso immortale tra gli altri da Miles Davis, Chet Baker e Frank Sinatra, e poi la romantica e ipnotica Doo-Wop I Only Have Eyes for You. Troviamo anche lo stesso Mister No che, dopo una sonora delusione amorosa, intona il suo cavallo di battaglia Oh when the Saints Go Marching in. Sulle rive del Rio Negro, Dana Winter invece si esibisce con la classica Summertime, per poi lanciarsi, accompagnandosi stavolta da una chitarra, con I Had to Be You e, per finire, Basin Street Blues.

Bonelli raccontava così la passione per la musica: «Quando avevo circa vent’anni ero già appassionatissimo di jazz, e spesso mi infilavo in uno dei locali milanesi quali l’Arethusa, lo Shanghai, l’Arenella, la Cà Bianca, il Santa Tecla o la mitica Taverna Messicana, dove si esibivano straordinari jazzisti italiani. In quegli anni, c’erano due tipi di pubblico. Dalle nove all’una, la gente normale, coppiette, appassionati di musica, professionisti e curiosi. Dopo le due di notte, invece, c’era la cosiddetta calata dei balordi: ladruncoli, sbandati, nottambuli un po’ equivoci. Gli unici che non potevano entrare (la mala stessa non lo permetteva) erano i protettori e gli spacciatori, secondo il codice morale della malavita di allora. lo, naturalmente, ero presente a tutte le ore perché mi incuriosiva quel mondo sbandato, che ho riversato anche nelle trame di alcuni fumetti che ho firmato come autore con lo pseudonimo di Guido Nolitta».

Oh when the Saints Go Marching in torna anche in un altro fumetto della casa editrice, Cassidy, capolavoro hard boiled di Pasquale Ruju, ambientato tra le paludi della Louisiana e intriso di umori jazz, a partire dal titolo del primo dei suoi 18 albi, L’ultimo blues. Prima di essere crivellato dai colpi della polizia infatti il nostro moderno antieroe, un rapinatore che ha stretto un patto col diavolo, intona appunto la canzone tanta amata da Jerry Drake in un epilogo che riporta ai grandi classici cinematografici di Sam Peckinpah (Getaway, Killer Elite) e di Peter Yates (Bullitt). D’altronde le premesse del fumetto sono delle migliori: «In una notte diversa da tutte le altre, dove Elvis ha lasciato per sempre questo mondo, e Cassidy seduto in fin di vita ai piedi di un albero, solo con un anziano cieco sconosciuto, getta la pistola per terra e si abbandona alla morte. L’armonica nella bocca del bluesman comincia a suonare Somewhere over the Rainbow di Harold Arlen, e in un malinconico blues, Cassidy cade in un magico sonno solo dopo di saper che ha 18 mesi di vita, non un giorno in più per rimettere le cose a posto». A questo punto verrebbe voglia di accompagnare le tante canzoni jazz ascoltate dal protagonista e i suoi compari con un vinile, magari pieno di graffi, con quella sonorità che un cd o un mp3 non avrà mai, caldo come un bacio o spietato come il pugno di un nemico.

IN SOLITUDINE

Se ci spostiamo negli Usa possiamo scoprire, in diversi numeri, che Batman invece ama ascoltare nella solitudine della sua batcaverna melodie classiche, preferendo Beethoven a Mozart, mentre stormi di pipistrelli volteggiano a ritmo di musica.

In La quieta notte di Batman (The Silent Night of the Batman), numero 219 del febbraio 1970, su una storia di 8 pagine di Mike Friedrich disegnata da Neal Adams, scopriamo che il nostro Cavaliere Oscuro di Gotham è un cantante provetto visto che, per tutta l’avventura, non farà altro che intonare la natalizia Jingle Bells. Dapprima scostante («Il crimine e i guai non hanno da rispettare le feste!»), alle richieste di un gruppo di poliziotti, capitanati dal commissario Gordon («Andiamo Batman… che ne dici di contribuire con le tue potenti corde vocali a qualche canto natalizio?»), l’uomo pipistrello cederà con gioia («Perché no? Posso divertirmi finché tutto è tranquillo») intonando We Three Kings of Orient Are. Storia sciocchina ma divertente ci mostra un personaggio, come il crociato della DC, in una dimensione inedita, non idiota come la serie tv con Adam West, ma deliziosamente disimpegnato.

Per par condicio bisogna segnalare almeno un gustoso momento musicale alla Marvel, la casa concorrente di Batman e Superman: dopo aver testato un’arma batteriologica sui dei poveretti che stavano passeggiando in un parco, lo spietato Miles Warren alias il killer Lo sciacallo, uno dei nemici di Spiderman, si mette a canticchiare la canzone che sta ascoltando in quel momento, It’s the End of the World as We Know It (And I Feel Fine) dei Rem.

Se comunque i supereroi e le loro nemesi non spiccano per avere gusti sonori ribelli, lo stesso non si può dire di Eric Draven, il personaggio iconico della saga de Il corvo, straziante fumetto scritto nel dolore di un lutto da James O’ Barr. Tra citazioni di Baudelaire e Villon fa capolino in una scena tenerissima, e molto dolorosa, la rockeggiante Surrender dei Cheap Trick, suonata da una radio mentre, in un passato radioso a contrasto con un presente infame, il protagonista e la sua amata ballano romanticamente. Non è un mistero che O’ Barr ami la musica tanto che, nello stesso fumetto, si possono ascoltare, o immaginare di ascoltare, anche The Hanging Garden dei The Cure e Komakinodei dei Joy Division. Siamo davanti essenzialmente ad un’opera rock, piena di umori e di suoni che riescono con prepotenza a squarciare la parete invisibile della pagina disegnata.

In chiusura ecco il meraviglioso Hellblazer di Peter Milligan, nel quale un giovane John Costantine fonda una sua band musicale rock punk, dopo aver ascoltato i Sex Pistols al Roxy Club a Londra nel 1977. Vero, finto (i Pistols al Roxy, in verità, non ci hanno mai suonato, ndr) poco importa davanti a personaggi scritti talmente bene e così appassionanti da avere gusti musicali a volte impensabili, ma così deliziosamente umani.