C’è una porzione di provincia duale (Pesaro Urbino) nella regione al plurale (le Marche) dove 209 ettari di vigna toccano qualche manciata di comuni e località, i borghi da riconnettere alla costa e al resto del mondo, srotolando chilometri di fibra. Paesi da cui cacciare i cinghiali e gli storni ma in cui riportare gli umani.

LA VALLE DEL METAURO, OVVERO del fiume che la taglia e che prende il nome dalla confluenza di due torrenti, il Meta e l’Auro, che si incontrano a Borgo Pace, insieme funzionano bene, anche onomasticamente. Sono le terre di Rossini e Raffaello ma nessuno dei due illustri testimoni della provincia ha a che fare con questi luoghi e questa storia che si dipana tra Fano, Cartoceto, Saltara, Serrungarina, Montefelcino, Isola del Piano, Fossombrone, S. Ippolito, Montemaggiore, S. Giorgio, Piagge, S. Costanzo, Orciano, Barchi, Fratterosa, un’enclave di Mondavio. E ancora attraverso parte dei territori comunali di Fermignano e di Urbino.

POCO NOTE, ANCHE AI MARCHIGIANI, sono le vicende che si svolsero lungo le sponde del Metauro il 21 giugno del 207 a.c.: parliamo di guerra punica, la seconda, di elefanti di generali e di loro fratelli minori. Ecco, una storia minore con fratelli più piccoli: nella fattispecie Asdrubale, fratello di Annibale, e dei suoi dieci pachidermi schierati a supporto di Galli, Liguri Apuani e africani e Galli contro le truppe romane di Nerone e Salinatore. Tacito racconta che neanche gli elefanti poterono nulla e la vittoria andò ai romani complice, dice la leggenda, un eccesso di Bianchello la sera prima.

SI TRATTA DI UN VINO CHE HA RADICI antichissime in questa valle, ed è doc da 50 anni. Lo storico Andrea Santangelo spiega che: I mercenari galli di Asdrubale, infatti, esagerarono con il vino e il giorno della battaglia non erano decisamente in condizione di combattere. Questo influì sull’esito della battaglia e quindi anche di tutta la seconda guerra punica, dato che Asdrubale era giunto in Italia per portare quei rinforzi che da anni Annibale chiedeva. In quella battaglia così importante da portare a fiorire leggende come quella delle zanne di elefante ritrovate nel Metauro, o dell’origine punica di alcuni toponimi locali (Cartoceto, Barchi, Saltara, Fratte Rosa) l’amore dei galli per il bianchello fu esiziale. E dire che proprio in quella stessa zona (più o meno l’area da Rimini a Falconara) circa 200 anni prima, si erano venuti a insediare i galli senoni. Secondo Plutarco il motivo principale alla base di questo trasferimento di massa era stato proprio il vino. Pare, infatti, che dopo avere assaggiato il vino che si produceva nella penisola italiana (ivi portato dai greci), i celti ne fossero rimasti talmente entusiasti che presero armi, bagagli e famiglie e attraversarono le Alpi per cercare la terra che produceva una così meravigliosa e inebriante bevanda. Sembrerebbe una leggenda e magari lo è anche. Ma si è scoperto recentemente che la passione dei celti per il vino esisteva ed era anche molto antica. Nell’insediamento celtico di Heuneberg, nello stato tedesco del Baden-Wurttemberg, i ricercatori dell’Università di Tubinga hanno estratto residui organici di vino da 126 recipienti (calici, bicchieri, brocche e bottiglie) fabbricati a Heuneberg e da altri 7 importati dalla Grecia tra il VII e il V secolo a.C. Poiché in quell’area non sono state trovate evidenze di attività vinicola, il vino doveva essere stato importato da sud, dal mondo mediterraneo. La prima parte del racconto di Plutarco, quindi, è vera. Perché non dovrebbe esserlo anche la seconda? Comunque, i celti scesero in Italia e trovarono quello che cercarono: possibilità di menare le mani, fare bottino e avere vino in abbondanza. Ne divennero produttori. In Lomellina, per esempio, sono convinti che siano stati i celti i primi a investire nell’ambito vitivinicolo. Nel IV secolo a.C. crearono un vino, che viene riprodotto oggi, attraverso il cosiddetto Arbustum Gallicum. Che dunque anche i senoni siano stati i primi produttori del bianchello nelle Marche? Possibile? O forse il vino marchigiano lo si deve ai dori di Ancona? Non lo sappiamo, in attesa che i dati archeologici gettino luce su questa ipotesi, non possiamo che affidarci alla storia. I romani con la battaglia di Sentino (295 a.C.) cacciarono i senoni dalle Marche e divennero i padroni dell’Italia centrale e del vino che vi si produceva. Guerra e vino anche nei secoli seguenti ebbero uno stretto rapporto. A tal proposito, siamo davvero sicuri che fosse del tè quello che Winston Churchill sorseggiava il 26 agosto 1944 mentre osservava, da Montemaggiore sul Metauro, l’assalto alle posizioni difensive tedesche della Linea Gotica?

SEGUENDO LA MAPPA DEL LUOGO (ne esiste una digitale su bianchellodelmetauro.it ideata e realizzata dalla Camera di Commercio delle Marche che l’ha corredata di audio racconti originali e informazioni molto pratiche sulle cantine) si toccano paesi dove oggi purtroppo i cartelli vendesi sono più fitti dei filari. Scopo dell’anomalo, almeno per un Ente pubblico, strumento di webmarketing territoriale è quello di raccontare la memoria dei paesi insieme al vitigno autoctono, quasi un Sideways marchigiano.

IL BIANCHELLO DEL METAURO lo ha bevuto Asdrubale e pare anche Sir Winston Churchill; lo si consumava anche quando hanno forgiato nel bronzo il gruppo scultoreo equestre di epoca romana trovato a Pergola, l’unico nel suo genere. E’ terra questa di gente che fa, non solo il vino, e che ora è nelle mani di terze generazioni, giovani uomini coi nonni mezzadri e padri che negli anni Sessanta hanno lasciato il campo per l’industria e ora riportano la loro competenza. Lo racconta Mattia Marcantoni, 34 anni, che di fabbrica non ha voluto sentire parlare, ma vinifica e produce olio.

QUESTA TERRA E’ ANCHE LA PATRIA del biologico: a Isola del Piano si colloca la vicenda umana, politica e imprenditoriale di Gino Girolomoni che alla fine degli anni ’60 ha preso dimora nel trecentesco monastero di Montebello e di fatto ha portato il bio in Italia. Eredità raccolta da tanti viticoltori: Tommaso Di Sante, veterano del bio a 46 anni, produce vini certificati dal ’99 .

A FRATTEROSA, LUCA AVENANTI fa della terra argillosa che è materia della ceramica d’uso cara a Franco Bucci, la cifra della sua etichetta e dello spirito della sua azienda dove si vinifica e si impasta, occasionalmente, per creare piastrelle come quelle che decorano la cantina. Roberto Lucarelli, Rossano Sgammini, Claudio Morelli hanno figli e collaboratori che intercettano mode alimentari e cambi di gusto, viaggiano su social e market place, le fiere, le vetrine digitali (Terra Madre, salone del gusto di Slow food si è spostata lì) posti su cui si tenta di recuperare quote di mercato.

BUSINESS PER ARIA E PIEDI PER TERRA, per acclivi dolci come seni verso il mare, più aspri verso l’interno, dove solcati da calanchi, impervi e mozzafiato, già percorsi dalle scorrerie della Banda Grossi. «Dovreste vedere a maggio, a giugno», commentano invariabilmente i vignaiuoli.
Eppure Paolo Volponi ha cantato l’autunno marchigiano celebrando la dolcezza dell’ultima uva e il caldo smemorato delle castagne: chissà che i colori sgargianti della prossima stagione del nostro scontento non diventino vessillo e viatico di ripresa.