Vetri a terra, cumuli di macerie, polvere sedimentata nel tempo. Il cielo è plumbeo, avvolto in una fitta coltre di nuvole che non lascia filtrare la luce e rende il paesaggio livido, costellato di oggetti abbandonati, finestre rotte, muri sbrecciati, strade deserte e intralciate dai detriti. In lontananza c’è il mare, un blu-grigio che si fonde con quel set tragico e amalgama i pensieri. Il passare degli anni non è percepibile, se non con l’allargarsi di vuoti, interstizi e assenze.
È questo lo scenario apocalittico a cui l’artista e fotografo polacco Michal Szlaga chiama il pubblico, fin dal primo affacciarsi nella sala dedicata al suo progetto dentro la Rocca Colonna del festival di Castelnuovo di Porto (chiude domenica 6 ottobre). Una rete fitta di rimandi che intrappola lo sguardo, catapultando ognuno dentro al cantiere navale di Danzica, territorio di emorragie della Storia e di continui «documenti di perdita», come recita il titolo della mostra voluta dall’Istituto polacco di Roma, in collaborazione con la galleria Interzone e l’Istituto Adam Mickiewicz. Trentadue immagini, un video per testimoniare le sparizioni delle architetture e un libro per creare un movimento di opinione che arresti lo scempio della memoria. Dalla pubblicazione di quel volume, nel 2013, qualcosa è avvenuto e si cominciano a preservare intere zone del sito post industriale.

GLI IMPRENDITORI
Lui, l’artista, non pone nessun distacco fra sé e il cantiere. Filma e fotografa dalla «pancia» di quel luogo in via di estinzione, ne respira le polveri, ne archivia amorevolmente i «resti». Vive e lavora in uno degli edifici del cantiere navale, insieme a una colonia di altri creativi. «Quando sono entrato qui – ricorda – frequentavo il primo anno degli studi dell’Accademia di belle arti. Era il 1999: sono vent’anni che lavoro al mio progetto e immagino che dovrò impegnarmi per almeno altri venti. In questa mostra, presento le fotografie dello smantellamento del sito ex industriale. Ho diviso la mia opera per cicli: in uno, risalente al 2003, raccontavo i diversi mestieri degli operai all’interno del cantiere di Danzica, in un altro mi dedicavo ai più anziani, a coloro che avevano cominciato a lavorare lì nel 1947, in un altro ancora seguivo il destino delle navi portate a smantellare in India. Potrei dire che sono partito dal fascino del mare.
Nel 1999, in Polonia, come in altri paesi dell’est, l’industria era in vertiginoso crollo. E l’area del cantiere, agli inizi del terzo millennio, fu acquistata da investitori. L’idea era quella di farci un distretto, c’era un gran fermento che faceva sperare per il meglio».
Il cantiere navale di Danzica che ha irretito Michal Szlaga, anche se in disuso, ha un forte valore simbolico per l’identità nazionale. Nel 1980 è stato la culla di Solidarnosc, il movimento sindacale guidato da Walesa: dieci anni dopo le manifestazioni di protesta, vinse le elezioni e divenne Presidente della Repubblica. Così, fin dagli esordi della sua riconversione in una zona di tendenza, alcuni suoi edifici sono stati preservati, lasciati a vessillo della democrazia conquistata.
Se ai tempi di Solidarnosc all’interno del cantiere navale lavoravano diciassettemila operai, quando arriva Szlaga, nel 1999, il numero si è drasticamente ridotto a mille. «Prima del disfacimento dell’Unione sovietica – spiega l’artista – il 95% dei suoi prodotti venivano acquistati dalla Russia. Era il cliente principale. Dopo l’89 quel cliente viene a mancare e il cantiere navale di Danzica non riesce a reinventarsi, a risollevarsi. Eppure la sua storia è stata eroica, ha attraversato centocinquanta anni. Nacque infatti alla metà del XIX secolo, come un cantiere tedesco, il suo periodo di massimo fulgore fu quando lavorò per il mercato militare della prima e poi della seconda guerra mondiale. Nel 1999 si poteva ancora osservare, proprio studiando le sue architetture industriali, come si era sviluppato il mestiere stesso, come andavano modificandosi le tecniche di costruzione delle navi. Il sito è importante da conservare perché può raccontare una storia da tramandare alle generazioni future».

SPERANZE DELUSE
All’inizio, però, sia Szlaga che gli altri amici che hanno gli atelier nel cantiere pensano che non tutto sia negativo. Se lo spazio del cantiere da una parte diminuisce, i nuovi metodi di lavorazione non richiedono più i 150 ettari di prima per l’assemblaggio delle navi. Invece, la parte abbandonata è perfetta per far prosperare un quartiere di eccellenza, mantenendo intatte le architetture storiche. «Eravamo in tanti ad abitare lì e gli investitori ci avevano dato alcuni edifici in gestion. Io addirittura facevo fotografie per loro. C’era entusiasmo, una situazione effervescente. La città cominciava a immaginare il cantiere non soltanto come un coacervo di problemi economici e posti di lavoro perduti, ma anche come un luogo culturale vivace. Fino al 2007, sono rimasto concentrato sull’apporto del mare e sulle persone che lì svolgevano i loro compiti. Le architetture industriali non erano nei miei piani. Ma nel 2007 il sito passò di mano e fu ceduto ad altri investitori (soprattutto americani) che presero a demolire indistintamente gli edifici, pure quelli più antichi. In un breve periodo, il 50% del patrimonio industriale scomparve. Vivevo un conflitto interiore: sul cantiere navale ufficialmente si raccontavano cose non vere, le autorità fingevano di attribuirgli importanza parlando di Solidarnosc. Nella realtà, stavano smantellando tutto. Si tenevano in piedi solo i luoghi ‘di Walesa’, ma gli altri centocinquant’anni di storia finivano in macerie. È a quel punto che il mio sguardo si è posato sulle architetture. C’era tutto un mondo precedente a Solidarnosc da narrare ed era quello vissuto da intere famiglie che erano passate per il cantiere, tramandandosi il mestiere».

IL RECUPERO
Szlaga smette di essere solo un artista contemplativo e si prefigge un obiettivo: cercare di fermare le distruzioni. Diventa un attivista, chiede udienza e cerca di convincere le autorità comunali, spinge il suo progetto fuori da Danzica per portare la sua criticità oltre i confini della Polonia. Sul Newsweek esce un articolo, cui seguiranno altri in diverse riviste. «Quel che stava accadendo a Danzica non era un fatto isolato. Molte fabbriche, cuore pulsante di piccole cittadine polacche, stavano subendo la stessa sorte. Non riuscivo a comprendere perché edifici così belli e importanti per la memoria collettiva non fossero oggetto di restauro, perché quel sito ex industriale non fosse da recuperare. Allora, insieme a un restauratore, mi sono messo a fotografare ogni architettura che stava per essere abbattuta. Venivo informato in maniera clandestina e mi facevo trovare lì per testimoniare con le immagini».
Le demolizioni sono ancora in corso. E la situazione è grottesca. «Io vivo lì, insieme alla colonia di artisti, pochissimi lavoratori e con le ditte che distruggono tutto. Ormai ho raccolto decine di migliaia di fotografie e penso che se un giorno qualcuno volesse ristrutturare un edificio storico potrà utilizzare il mio lavoro per riportarlo in auge com’era. Un momento cruciale della mia battaglia è stato quando ho lanciato online il mio film sulle demolizioni. È stato postato e rilanciato da molte persone: il problema non riguardava più uno schieramento politico. C’era un patrimonio da preservare».