Nella sua poesia più conosciuta, «Concord Hymn» (1837), Ralph Waldo Emerson commemorava l’inizio della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti definendolo «a shot heard around the world», uno sparo che è echeggiato in tutto il mondo. Forse in quel momento esagerava – chissà quanti si accorsero allora che in quel remoto angolo di un lontano continente stava accadendo qualcosa che riguardava tutti – ma a lungo termine aveva ragione: a mano a mano, la storia e gli eventi dell’America sono usciti dai confini degli Stati Uniti e diventati storia globale. Così, anche gli eventi dell’11 settembre 2011 sono stati «un colpo che si è sentito in tutto il mondo» – e, in questo caso, immediatamente, con tutta la forza della diretta televisiva e della rete. Perciò in questo numero di Ácoma parliamo del tempo e dello spazio: un evento istantaneo che ha eco per decenni, un evento locale che comincia negli Stati Uniti e risuona in tutto il mondo.

Lo spazio. Ha scritto Sacvan Bercovitch che esiste una differenza fra Stati Uniti – realtà statuale con un territorio e confini definiti – e «America», proiezione ideale senza limiti e senza contorni, «ambiguo territorio, simultaneamente limitato agli Stati Uniti, identificato con il Nuovo Mondo, e definito come privo di limiti». Questo numero di «Acoma» riflette precisamente su questa dimensione globale di un evento «americano». È profondamente «americana» la storia di Ferouz Abbasi: nasce in Uganda, cresce in Inghilterra, vagabonda per l’Europa, emigra in Afganistan, sta rinchiuso tre anni in una baia dell’isola di Cuba, torna a Londra, non mette mai piede negli Stati Uniti, ma non sta mai fuori dell’«America». Lo stesso si può dire per Mahmoud, nel suo rimbalzare fra Gujarat, New York State, e di nuovo Gujarat. Così, l’impatto visuale dell’11 settembre, evento televisivo per eccellenza, si trasfigura nelle immagini di arti tradizionali di paesi lontani – i tappeti di guerra dell’Afghanistan, i rotoli dipinti dei cantori\pittori bengalesi – ma anche nei segni urbani di Roma postcoloniale e, nella periferia geografica e sociale degli Stati Uniti, nel rap dei barrios latini di Los Angeles. In questo senso, l’11 settembre è anche l’evento fondante di quella nuova dimensione globale degli studi americani che, smentendo eccezionalismo e isolazionismo, prende atto dell’inestricabile relazione fra gli Stati Uniti e il mondo.

E poi c’è il tempo. L’immagine emersoniana dello sparo è un’immagine puntuale: un colpo di fucile dura un attimo, e l’11 settembre designa un giorno – anzi, pochi minuti che si allargano a definire un giorno. Tuttavia, come ha scritto Walter Benjamin, «un evento vissuto è finito, o perlomeno è chiuso nella sola sfera dell’esperienza vissuta, mentre un evento ricordato è senza limiti, poiché esso è solo la chiave per tutto ciò che è avvenuto prima e dopo di esso».
L’impatto dell’11 settembre dura ancora, non solo nella politica e nelle istituzioni (neanche Barack Obama è riuscito a chiudere Guantanamo) ma soprattutto nelle coscienze e nella soggettività: nella memoria e nell’immaginazione.

Scrive Gerry Albarelli: «Mi sentivo come se in qualche modo fossi uscito dal tempo dell’emergenza ed entrato in strane, inattese, sacche di tempo». Se l’impatto globale dell’evento riguarda lo spazio, la memoria riguarda il tempo. La memoria passa per il lavoro della storia orale, nelle pagine di Irum Shiekh sulle deportazioni arbitrarie seguite all’11 settembre, o in quelle di Mary Marshall Clark e Gerry Albarelli, che hanno lavorato ai due essenziali progetti del centro di storia orale della Columbia University e hanno ascoltato e ricostruito memorie alternative, antagoniste al senso comune delle istituzioni e dello stato sull’11 settembre e su Guantanamo. Ma il tempo della storia orale è innanzitutto un tempo dialogico: un tempo raccontato, in cui i ricordi del narratore invadono l’ascoltatore e lo trasformano a sua volta.

Il tono di questi racconti è essenzialmente lo stupore: come è possibile che certe cose siano accadute e possano continuare ad accadere. Anche qui, la dimensione è duplice, statunitense e «americana»: la malignità profonda dentro un sistema democratico, e le possibilità maligna dentro l’umanità stessa. È ancora stupito Mahmood, nel raccontare la sua storia, dall’impatto con la contraddizione fra il suo sogno americano e la sua esperienza degli Stati Uniti, fra la bellezza del paesaggio e la disonestà delle istituzioni. E sono pervase da un senso dell’assurdo anche le meditazioni dialogate di Gerry Albarelli e le note critiche di Mary Marshall Clark all’intervista di Ferouz Abbasi. Lo stupore, l’assurdo generano quelle perturbanti sacche di tempi di cui parla Albarelli e nelle quali, da quel fatidico giorno, continuiamo ad esistere.