«Dio, che venne sulla Terra duemila anni fa per salvare gli uomini, dimenticò senza dubbio gli indiani», si dicono disillusi e ormai sul punto di disperare gli sfruttati nelle foreste di mogano in La rivolta degli appesi. Pubblicato per la prima volta nel 1936, tradotto in italiano per Longanesi nel 1952, il libro del misterioso scrittore Bruno Traven torna ora in libreria in una curatissima nuova traduzione per Wom edizioni (pp. 256, euro 20).

SIAMO IN MESSICO, negli ultimi anni della dittatura di Porfirio Díaz. Nelle monterìe dove si abbattono, si scorticano e si fanno viaggiare i tronchi degli alberi di mogano, i procuratori ammassano interi eserciti di lavoratori, sottoproletari ricolmi di debiti da sanare, indiani considerati meno che umani per nascita, ex galeotti, disperati.

Le loro condizioni di lavoro sono di sfruttamento: abbattere il mogano è un lavoro estremamente pesante e va effettuato a ritmi disumani e in un ambiente ostile, privo di alloggi e fra le angherie dei padroni. Traven si sofferma minuziosamente su quelle che sono vere e proprie torture perpetrate a danno di chi non riesce a garantire i quintali settimanali di legname pattuiti o di chi è finito nelle mire dei caporali di turno. La più temuta di queste punizioni è appendere a un albero gli sfruttati per diverse ore: le membra strette da corde che rendono impossibile ogni movimento, il corpo ricoperto di grasso o sale per attirare gli insetti, in particolare le formiche rosse che dilaniano la carne un brandello alla volta.

LE NOTTATE SFIANCANTI, passate a resistere ai colpi della frusta o ai morsi degli insetti, si alternano a giornate di lavoro la cui fatica viene restituita in maniera cristallina dallo stile piano e realista dell’autore. Avvengono anche tentativi di fuga, così coinvolgenti nel disperato sforzo di superare gli ostacoli imposti dalla foresta e dal terreno paludoso che argina il fiume, così frustranti quando i rapidi cavalli dei caporali raggiungono gli evasi e le armi spianate fanno fuoco, non risparmiando nemmeno i più giovani, appena bambini a seguito dei loro disgraziati padri.

Al centro del romanzo, troviamo uno di questi tentativi di fuga, la cui fortuna è dovuta alla capacità degli ammutinati di aggregare nella resistenza comune il maggior numero di boscaioli possibile, accendendo in loro lo spirito della rivalsa e l’urgenza di giustizia.

La battaglia al grido di «Terra e libertà» si espande come un fuoco: la sua forza è di non essere questione individuale o di pochi, bensì lotta che si estende dal campo di lavoro alle istituzioni della dittatura. «Perché aspettare il Salvatore? Salvati da solo, fratello, e allora il tuo salvatore arriverà».

Quella raccontata da Traven è una storia di profonda dignità, in cui all’ingiustizia del potere economico e politico rispondono coraggio e integrità umana. L’intensità della narrazione sa trasmettere il senso di iniquità, la gratuità della crudeltà, ma anche l’umanità irriducibile fosse anche sotto i colpi della sferza o durante le lunghe ore notturne in balia degli insetti e dei predatori, appesi a un albero.

LA DENUNCIA contenuta in questo libro arriva da un secolo che può sembrare lontano, ma dal quale l’immorale disumanità continua imperterrita in molti angoli dimenticati del mondo contemporaneo. Questo libro, comunque, parla forte e chiaro anche a noi, comunicando valori irrinunciabili in ogni condizione di vessazione o sfruttamento, quali il coraggio, la lotta comune. E, soprattutto, la dignità.