«Volevo fare un film sull’immigrazione ma non volevo una storia con i cattivi da un lato, e gli angeli dall’altro. Un’amica sociologa mi ha parlato di giovani moldavi che praticavano una forma di ricatto legato alla prostituzione e alla pedofilia. Questo mi ha dato l’idea per Eastern boys». Col suo secondo film, dopo l’horror senza effetti splatter Les revenants del 2004, Robin Campillo, sceneggiatore per Laurent Cantet (XXX) ha vinto quest’anno il premio Orizzonti per il miglior film alla Mostra del cinema di Venezia – in una sezione la cui qualità era nell’edizione appena passata particolarmente alta. Il riconoscimento non è servito però ad avere una distribuzione in Italia. Così il suo film si vede nel nostro paese grazie ai circuiti «estemporanei»: qui era ospite della rassegna «Venezia a Napoli – Il cinema esteso» organizzata da Parallelo 41 produzioni.
La storia dei suoi Eastern boys comincia alla Gare du Nord: nella stazione parigina si ritrovano infatti ragazzi molto giovani provenienti dall’Europa dell’est. Daniel, borghese cinquantenne, è attratto da Marek. Quello che doveva essere un incontro sessuale a pagamento si trasforma in un gioco in cui i ruoli di vittima e carnefice si ribaltano continuamente, fino ad arrivare alla comprensione e, a un un rapporto stabile.

«Eastern boys» è scandito in quattro tempi, che segnano le tappe del rapporto tra Daniel e il ventenne Marek. All’inizio lo stile è quasi «documentaristico», per stringersi man mano sempre di più sui due protagonisti.

Volevo raccontare con l’occhio dell’osservatore esterno come vivono i ragazzi dell’est che si ritrovano alla Gare du Nord. Anche Daniel li osserva con il distacco di chi ha la sicurezza economica ed è tutelato dalla legge. Poi però decide di infrangere il codice sociale, contrattando un incontro sessuale con Marek. Il pubblico lo vede come l’assalitore, l’orco, quello che ha tutto il potere. Tuttavia a casa si presenta l’intero gruppo, comandato dal venticinquenne Boss, il più grande e il più furbo. Boss vive in una società che non lo accetta, ma che non ha nemmeno il coraggio di rimandarlo indietro. Le istituzioni li sistemano in alberghi e però non danno loro i documenti e delle possibilità reali di lavoro. Boss ha imparato a vivere in un ambiente ostile e a sfruttarne le opportunità. Così decide di ricattare Daniel, minacciando di denunciarlo per pedofilia. I ragazzi fanno una festa a casa sua depredandola. Il borghese francese a quel punto è terrorizzato, non è più lui che ha il potere.

Marek e Daniel impareranno a conoscersi ma dovranno fare i conti con i codici delle rispettive comunità di riferimento. Solo nello spazio privato è possibile stabilire un rapporto?

La narrazione si snoda lungo un doppio binario: da un lato c’è il concetto di ospitalità/ostilità teorizzato da Jacques Derrida, quell’hospitalité che si trasforma nella sensazione di essere ostaggio della persona che accogli; dall’altro c’è l’opposizione tra legalità e legittimità. Ho girato nel mio appartamento, sperimentando direttamente l’invasione del privato. Inoltre vicino a casa mia, su un ponticello, la comunità rom tiene il suo mercatino, quando ci passo in moto mi arrabbio perché, occupando la sede stradale, impediscono il mio diritto al transito. Gli ambulanti, dal canto loro, si sentono legittimati a svolgere la loro attività. La società ci chiede continuamente di decidere se preferiamo proteggere il nostro spazio privato, oppure la nostra appartenenza a una comunità. Una società serenamente aperta è un bel sogno, ma lo è anche quello di una società chiusa, come vorrebbe la destra. Dobbiamo ancora imparare ad aprirci.

I quattro tempi segnano anche altrettanti passaggi di stile.

Per raccontare la complessità di una vicenda come questa, bisogna modificare il punto di osservazione. Prima c’è la distanza del «documentario», poi irrompe la realtà dei ragazzi che si prostituiscono. Durante il party a casa di Daniel parlano in russo tra loro, lo spettatore non ha la traduzione perché deve sentirsi come si sente Daniel, tagliato fuori ma eccitato dall’elettricità della festa. Infine arriva la comprensione e dopo ancora la tenerezza. Non volevo fare un film con un’estetica precisa, ma tradire il mio stesso linguaggio, mettere me stesso e lo spettatore fuori dalle rispettive zone «protette».

I personaggi di Marek e Boss sono affidati ad attori russi. È stato difficile per loro recitare in un film che racconta un rapporto gay?

Ho detto loro di pensarci bene, dovevano sentirsi a loro agio in un film che avrebbero visto i parenti a casa. Mi hanno risposto che erano dei professionisti in grado di sostenere il ruolo. All’epoca però la Russia non aveva ancora varato la legge che vieta la propaganda omosessuale. Quando è successo mi sono preoccupato e li ho chiamati. Date la colpa a me, ho detto, dite che sono una persona orrenda e vi ho costretto.