Debutterà il 23 maggio a Cannes, alla Quinzaine des Realisateurs, Cuori puri, il lungometraggio d’esordio di Roberto De Paolis. Protagonisti della storia sono due ragazzi della periferia romana di Tor Sapienza e l’amore che nasce tra loro: Stefano (Simone Liberati) ha venticinque anni e fa la guardia nel parcheggio di un supermercato che confina con un campo Rom, mentre Agnese (l’esordiente Selene Caramazza) ha appena compiuto diciotto anni e fa parte di una comunità fortemente cattolica. L’iperprotettiva madre Marta (Barbara Bobulova) vuole a tutti i costi che faccia «la promessa»: che si impegni a restare vergine fino al matrimonio. «Marta è stata un personaggio con cui ho avuto un rapporto molto conflittuale – racconta Bobulova – A metà riprese ho cominciato a odiarla: non sopportavo più di dare me stessa, come ci chiedeva Roberto a un personaggio radicalmente opposto a me, che faceva scelte completamente diverse da quelle che avrei fatto io».

 

 

Prima di Cuori puri Roberto De Paolis, classe 1980, aveva realizzato due cortometraggi, entrambi presentati al Festival di Venezia: Bassa marea, del 2010,un on the road intimista in una città labirinto, e Alice la parabola di una giovane coppia, dell’anno successivo. E al Festival di Cannes il regista sarà presente anche in veste di co-produttore del suo film insieme a Carla Altieri, con la quale ha fondato nel 2013 la Young Films, che annovera tra i suoi titoli anche i documentari Fuoristrada di Elisa Amoruso e Saro di Enrico Maria Artale.

La purezza del titolo del film che vedremo a Cannes, spiega De Paolis, ha più di un significato: non è solo l’illibatezza richiesta ai giovani devoti della comunità di cui fa parte Agnese, ma anche «l’incapacità di mettersi in relazione con qualcosa di diverso da sé».

 

 

Come ha lavorato a questa storia in modo da restare fedele alla realtà?
C’è stato un lungo lavoro di documentazione: quella di Cuori puri è una storia che nasce dall’osservazione di realtà che non conoscevamo, da fatti di cronaca e da un lavoro di ricerca: io stesso, un giorno, avevo notato un ragazzo che lavorava come guardia di sicurezza nel parcheggio di un supermarket vicino a un campo Rom. La strada più semplice per raccontare dei mondi a noi sconosciuti come quello delle periferie sarebbe stata la fantasia, l’invenzione, ma avrebbe significato peccare di superbia. Prima di tutto è stato scelto un quartiere, Tor Sapienza, nel quale siamo entrati per il lavoro di preparazione: abbiamo frequentato le comunità cristiane e evangeliche – il mondo a cui nel film appartiene Agnese – e poi l’ambiente dei casermoni popolari, dove è molto sentito il tema del lavoro, da cui viene Stefano. Anche gli attori si sono documentati a lungo: Selene per mesi ha frequentato una delle comunità del quartiere religiose, e Simone i palazzoni.

 

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Che cosa si è imposto di non fare per non incorrere negli stereotipi sulla periferia?
In realtà nella sceneggiatura iniziale c’erano molti stereotipi, dovuti proprio alle nostre idee su un mondo di cui non avevamo esperienza. È questo uno dei motivi per cui ci sono voluti circa quattro anni per realizzare Cuori puri, insieme alla paura che comporta il fatto di essere al primo film, che mi ha portato anche a fare molte digressioni. La prima sceneggiatura era basata quasi interamente sul personaggio di Agnese ma non era convincente, i produttori ci hanno chiesto di lavorarci ancora. Tutto è cambiato proprio stando nei luoghi che volevamo raccontare, compreso un campo Rom in via Salviati dove siamo stati accolti con molta cortesia e da dove vengono i personaggi Rom che ci sono nel film. Ma loro restano più sullo sfondo, dietro la rete del parcheggio dove fa la guardia Stefano che in fondo ha paura di «diventare come loro». Una paura che abbiamo sottolineato con i personaggi dei suoi genitori, che vengono sfrattati e vanno a vivere in una roulotte, uguale a quelle che Stefano vede tutti i giorni a lavoro.

 

 

 

 

Come mai ha scelto di girare con la macchina a mano?
A tutti gli attori ho chiesto una certa dose di improvvisazione, e soprattutto Simone si muoveva molto, continuava le scene anche dopo che erano finite: l’unico modo per evitare che uscisse dal campo continuamente era proprio usare la macchina a mano.