Il viaggio degli agrumi è stata una bella avventura. Si sono persi in maniera non meglio definita anche per gli storici, tra l’età greca e il medio evo e in tempi più recenti. Nel loro spostarsi, sulle navi di mercanti, crociati o saraceni, hanno attraversato il mare. Da oriente verso occidente, dalla lontana Cina via India, Persia e Mesopotamia questi pomi un giorno hanno raggiunto il Mediterraneo.

La parola stessa pare derivata dal latino tardo medievale, acrumen ad indicare la loro asprezza. Furono apprezzati dai marinai per la loro capacità di combattere lo scorbuto, lime juicers erano chiamate le navi inglesi, dove si somministravano in abbondanza all’equipaggio. Furono apprezzati anche dai re che per poterne avere si fecero costruire appositi ambienti, le grandi serre vetrate, le orangerie. A fine Settecento, l’Orto Botanico di Palermo ebbe il grande merito di diffondere la coltivazione del mandarino in Sicilia. Se c’è stato un paese che dalla coltivazione estesa degli agrumi ha ricevuto grande beneficio e rinomanza mondiale, è proprio l’Italia, il suo meridione e le isole.

«Il paese dove fioriscono i limoni» amato da Goethe è rimasto quel luogo sognato da ogni romantico europeo, laddove si dimostra che paesaggi e attività umane possono essere reciprocamente mutati e per taluni miracoli migliorati e abbelliti. L’esigenza di prevenire lo scorbuto a bordo delle navi incentivò la coltivazione dei limoni, quale felice combinazione di poterlo fare proprio lungo le coste con evidenti risparmi sul trasporto?

Ragioniamo di tutto questo con il signor Alfonso Fortezza, un agrumicultore, nel cuore di Minori, cittadina della costiera che con Maiori, Amalfi, Ravello, Scala, costituisce uno dei principali luoghi di produzione dello sfusato amalfitano, attualmente protetto da una Indicazione Geografica Protetta (IGP). Se la costa d’Amalfi è patrimonio Unesco, lo si deve anche agli straordinari paesaggi dominati dai terrazzamenti che modellano le montagne, i Monti Lattari, che, a precipizio, strapiombano sul mare. Il turista che si affacci dal Belvedere di Villa Cimbrone, a Ravello, tra i luoghi più suggestivi al mondo, ai piedi della falesia, ammira proprio limoneti, a perdita d’occhio.

Ci troviamo in una pasticceria rinomata, tra le specialità campeggiano le delizie al limone, nel patio svettano alcune piante, il loro aspetto è inconfondibile. Alfonso ci permette una familiarità cortese, è qui perché, da agricoltore e da allevatore, possiede la memoria storica, la sua è una famiglia che da almeno centocinquanta anni coltiva limoni. Racconta delle luci e delle ombre che hanno permesso la nascita di questo paesaggio unico al mondo.
Se la fatica è stata tanta, strappando alla roccia metro su metro, costruendo muretti a secco, nel corso di almeno due secoli – la coltivazione cominciò agli inizi dell’Ottocento – le famiglie contadine pur sudando riuscivano a mantenersi dignitosamente. Coltivare limoni era una attività anche economicamente importante. I limoni erano pagati bene.

Le navi venivano sotto costa e i limoni venivano imbarcati nelle caratteristiche cassette di castagno. Rimangono celebri i controlli delle unghie cui venivano sottoposti i portatori e le portatrici di limoni. Unghie lunghe e sporche mettevano a rischio il frutto che doveva essere perfetto e non presentare difetti di sorta. Se le caratteristiche geologiche, morfologiche del territorio hanno permesso che qui potessero vegetare quelli che sono considerati tra i migliori limoni del mondo, ovvero l’esposizione a mezzogiorno, verso il mare, l’essere coltivati in collina, riparati dai venti di tramontana, in una situazione per cui il clima non è mai gelido e neppure torrido, è stata la tremenda fatica umana che ha dato origine a questa «storia di limoni».

La giornalista Flavia Amabile, percorrendo le scalinate ripide della costiera nel corso di un intero anno solare, ha documentato nel suo lavoro Contadini volanti queste fatiche. Già solamente sobbarcarsi duemila gradini, al tempo della raccolta, con almeno 55 chili di limoni sulla testa, dice di un aspetto di questa fatica.
Tutta la coltivazione, dall’impianto stesso del limoneto alla sua manutenzione, richiede padronanza di tecniche che purtroppo stanno scomparendo. Il prezzo dei limoni, molto più basso che in passato, e l’attrattiva crescente di altri lavori, stanno determinando una progressiva crisi nel mantenimento di questo tipo di lavoro. Sono tanti i fattori che, mettendo in crisi un ricambio generazionale, colpiscono non solamente un comparto economico con una filiera alimentare di pregio indiscusso ma anche un paesaggio di rara bellezza costruito con tanti sacrifici.

Sono pochi quelli che sanno costruire un muretto a secco, il signor Fortezza è stato il primo ad avere una certificazione positiva dalla Sovrintendenza alle Belle Arti per una sua casetta proprio nella zona dei limoneti, la sua opera muraria «a pietra affacciata» è stata promossa ma non è facile trovare ragazzi che vogliano imparare.

Un limoneto si compone di lavorazioni complesse di cui la raccolta, pur faticosa, è una delle componenti. L’impianto si compone di pali di castagno che pesano un quintale e mezzo ciascuno, occorre metterli a dimora in file assolutamente dritte da almeno due persone, ovviamente non durano in eterno e periodicamente vanno sostituiti. La cura delle piante, dalla potatura alla piegatura dei rami, richiede anch’essa perizia e necessita sempre di due persone. Insomma, il limone è una pianta delicata, non si può improvvisare nulla.

Una volta si ricopriva con frascame di leccio per proteggerlo dalle gelate, oggi si usano più pratiche reti di plastica, chi percorre le strade della costiera le nota dappertutto. Lo svantaggio è che le reti di plastica non potranno, come invece le frasche di leccio, una volta seccate, cadere ed arricchire il terreno di materia organica. Una pianta per arrivare alla produzione ottimale deve almeno raggiungere i vent’anni, solo allora può produrre fino a due quintali di frutti. Alfonso ci racconta che essendo pagati davvero poco al chilo, e rivenduti, invece, cari, sui mercati del nord Italia, ci vuole passione per proseguire questa professione. Tra ciò che si guadagna ed i costi della manodopera sta diventando sempre meno remunerativa. L’istituzione del Consorzio, della IGP, la crescente richiesta da parte di un turismo intelligente di una filiera enogastronomica tutta amalfitana, potrebbero rappresentare una risposta a queste problematiche. Un’altra risposta potrebbe essere nella diversificazione dell’agrumicoltura ed estendere la coltivazione ad altre varietà come il cedro, per esempio. L’Unesco ha riconosciuto la costa d’Amalfi patrimonio dell’umanità, è nata una «Alleanza mondiale dei paesaggi terrazzati». Attualmente sono circa quattrocento gli ettari di terra coltivati a limoni, individuare nel contadino, attraverso apposita legge regionale, un vero e proprio custode del paesaggio significa contribuire a preservare questo luogo.

Se fin dal Settecento intellettuali ed artisti, da Wagner a Liszt, a Ibsen a Gide, fino ai grandi registi come Rossellini, hanno amato questi luoghi, il lavoro dei contadini deve essere riconosciuto componente essenziale di questa bellezza. Il limone ha veicolato sapori e profumi, a primavera nei giardini – è così che da sempre si chiamano i terrazzamenti – si respira il profumo delle zagare. Il limone ha avvicinato civiltà e mosso le navi. Generazioni di «contadini volanti» hanno tramandato questi saperi, ci aspettiamo che le istituzioni riconoscano e permettano che tutto quanto possa proseguire presso le generazioni a venire. Vogliamo ricordare che qui, negli anni Ottanta, provarono a trivellare il golfo per ricerche di idrocarburi: una mobilitazione popolare massiccia e capillare, comune per comune, pose fine al paventato scempio. E per fortuna, sarebbe stata una minaccia insopportabile per questa meravigliosa ed unica «terra di limoni».