Quando all’alba del 17 aprile 1944 prese avvio l’«Operazione Balena» la città di Roma era già stata sottoposta alla strategia militare nazista del «terrore preventivo».

La capitale aveva infatti assistito alle deportazioni nei lager – il 7 e il 16 ottobre 1943 – di oltre duemila carabinieri, di 1.024 ebrei e alla strage delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, vivendo, inoltre, l’incubo delle camere di tortura di via Tasso e delle pensioni Jaccarino e Oltremare.

Tra i tanti drammatici sfregi inferti alla città durante i nove mesi di occupazione nazifascista quello subito dal quartiere del Quadraro – circa 2.000 uomini rastrellati e 947 deportati nei campi in Germania per i lavori forzati – rappresenta un fatto che storicamente riesce a racchiudere le tante, difformi identità della resistenza romana sintetizzate dalla affermazione dell’allora console tedesco Friedrich Eitel Moellhausen secondo cui vi erano a Roma due soli luoghi di rifugio per partigiani, antifascisti o renitenti alla leva: il Vaticano ed il Quadraro appunto.

E fu proprio questa la ragione di fondo che spinse gli comandanti militari tedeschi, Herbert Kappler e Albert Kesserling, ad agire contro quel «nido di vespe», così veniva definito il Quadraro, dove gran parte delle formazioni partigiane – dai Gruppi d’Azione Patriottica a Bandiera Rossa, dalle brigate Matteotti a Giustizia e Libertà – organizzavano la lotta di liberazione.

Il «terrore preventivo» era una consueta strategia militare dalle truppe tedesche, come testimoniano le stragi di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema. E proprio nell’ottica di fare terra bruciata intorno ai partigiani prese forma, il 17 aprile 1944. l’azione di rastrallamento nella borgata ribelle.

A settant’anni dai fatti, le domande che la storia pone al presente richiamano l’onere della responsabilità pubblica di fronte al fatto che molti dei testimoni di quegli avvenimenti sono morti. E questo, nonostante la medaglia d’oro al valor civile conferita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2004 e la pubblicazione di diversi volumi come Quadraro una storia esemplare di Francesco Sirleto e La Borgata ribelle di Walter De Cesaris.

Per questo venir meno della storia orale costituita dai racconti dei testimoni di allora, va affermata la necessità di un superamento delle formule retorico-celebrative per ricomporre quelle vicende storiche, con tutto il loro portato di complessità e criticità. Un’operazione tesa a elaborare una chiave di lettura che ricostruisca e ridia un senso alla storia, in una realtà contemporanea che afferma come postulato assoluto la centralità di un eterno presente che isola i singoli dai vissuti collettivi.

La vicenda del Quadraro parla di uno spaccato civile capace di pensarsi e sentirsi collettivamente in alterità con un ordine ostile e dittatoriale: per questo non può né deve essere ricondotta entro gli stretti confini del paradigma vittimistico, che troppo spesso sottende alle ricostruzioni pubbliche delle avvenimenti storici dell’Italia del 1943-1945; né rimanere vincolata alla sola memoria del «non dimenticare», anticamera di quelle narrazioni sostitutive incentrate esclusivamente su immagini empatiche modulate sui criteri delle fiction televisive.

Oltre che a «non dimenticare» la storia di un pezzo della città ribelle può inoltre servire anche «a fare», affinché il rastrellamento punitivo di un quartiere della capitale nel lontano 1944 non rimanga soltanto memoria di «chi c’era» ma rappresenti la radice del presente per «chi c’è».