Esce un quarto, inaspettato volume de Gli autonomi, la meritoria collana che Derive Approdi ha dedicato a partire dal 2007 alla ricostruzione delle vicende, sempre complesse, dell’Autonomia Operaia, delle sue organizzazioni e dei suoi militanti. Il tema, questa volta, è l’Autonomia romana, gli autori sono Giorgio Ferrari e Marco D’Ubaldo. Esponente di rilievo dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci, il primo; militante dei comitati di quartiere dell’Appio-Alberone, il secondo.

Il percorso centrale della pubblicazione non può dunque essere che quello, abbastanza vasto, delle lotte metropolitane che segnarono a Roma lo scorrere degli anni Settanta, e in cui i Comitati Autonomi Operai (i Volsci, rievocando il lessico di quegli anni) ebbero ruolo, non certo unico, ma sicuramente importante. Dal loro affermarsi come aggregazione sinceramente e spontaneamente autonoma non tanto e soltanto dalla politica «formale» ma anche e soprattutto da quella dei gruppi extraparlamentari e della loro parabola politica e organizzativa, in primo luogo.

LA PRESENZA, rilevantissima, all’interno della Sanità e del sistema nazionale allora vigente, sconvolse l’assetto sindacale del settore, condizionandone l’esistenza; capace, dunque di creare negli ospedali e nelle cliniche universitarie romane forme di contropotere reale e organizzato nei confronti del potere sino ad allora indiscusso dei vari «luminari» della medicina, primari e baroni, spesso anche «rossi», delle cattedre. C’è poi l’intervento, ancora più rilevante e duraturo, nel settore energetico: i suoi cicli produttivi e di distribuzione, il suo costo, il suo valore sociale, il suo impatto sull’ambiente e sul territorio.

Su questo terreno, lo si può affermare senza esitazioni, i Volsci hanno avuto il merito di aver anticipato di decenni, anche sul piano più generale della conoscenza e della teoria, la consapevolezza e la presa di responsabilità dell’intero movimento. Sul nucleare, soprattutto: laddove una buona parte dell’ambientalismo di allora, soprattutto quello «tecnico» dei ricercatori alla Mattioli o alla Scalia non aveva ancora saputo scegliere la strada se non dell’opposizione, almeno del «principio di precauzione».

RESTA FUORI di dubbio comunque che sul piano della militanza cittadina, della presa nelle situazioni sociali, del presidio e della difesa dei territori, della promozione delle lotte per la casa, per il costo della vita, per la conquista di sempre più larghi diritti sociali da parte del proletariato, i Volsci possono vantare (e i loro ex militanti non mancano mai di farlo, anche oggi) ruolo e meriti non secondari.

È in questa chiave, però, che qualche sorpresa e qualche sconcerto, specie nel lettore «d’epoca», possono destare alcuni decisi e marcati spunti polemici che i vari testi del libro si adoperano a formulare nei confronti di altre esperienze autonome, soprattutto milanesi: come Rosso, la rivista e il gruppo. Come quella, piuttosto singolare, sull’«operaio sociale», definita teoria «cervellotica»; o quella sugli «intellettuali» (notare l’uso fatto in tutto il testo del termine) che dall’alto dell’operaismo avrebbero contemplato con brividi di piacere «la rude razza pagana» della classe operaia. Con ciò non comprendendo l’elemento costitutivo, «liberatorio» e lontano da ogni determinismo ideologico, della nuova soggettività politica che la tematica della «fine del lavoro» andava determinando. E trascurando, inoltre, che l’esperienza di Rosso e dell’autonomia milanese fu, essenzialmente, esperienza operaia, non meno di quella romana: anche se ebbe, come caratteristica costitutiva, la forza e la preveggenza di saper allargare non solo i propri orizzonti d’attesa, ma anche i propri obiettivi politici immediati, a tutte le lotte per la liberazione della persona e del genere in termini di autodeterminazione e di sempre crescente autovalorizzazione.

I DUE AUTORI hanno pieno e totale diritto a usare la propria memoria e i propri ricordi, personali e politici, come meglio credono. Soprattutto se ciò serve a rivendicare una coerenza politica e personale che nessuno, peraltro, ha mai messo in dubbio.

Ma il punto è che ricordi e memoria, per importanti che siano, non sono «la storia»; o meglio: difficilmente possono essere tanto larghi e oggettivi fino a essere capaci di riflettere in tutto, per poter su di essa dare giudizio definitivo, la complessità di un ciclo o di una fase temporale come quella degli anni Settanta, tanto per semplificare. Naturalmente il discorso vale per tutti.

UN ULTIMO PUNTO: Ferrari sostiene che una storia dell’Autonomia che si fermi al ’77 o al 7 Aprile (del 1979, ovviamente) non renda il giusto conto dell’effettiva consistenza e longevità del fenomeno. Nulla vieta a un singolo militante, ovviamente, di considerare la propria esperienza e la propria capacità di tenuta come «centrale» a una fase, e dunque capace di essere rappresentativa dell’intera fase stessa.
Da questo a considerare ancora aperta, viva e vitale l’esperienza dell’autonomia operaia ancora dopo la stagione della repressione, degli arresti e dei processi, è soprattutto un dato che i fatti e i numeri, o meglio le ricostruzioni oggettive di quanto accaduto a Roma a partire dagli anni Ottanta, difficilmente sostengono.
Anche senza dover ricorrere a inutili discettazioni sull’effettiva durata del fenomeno Autonomia, da spostare assai più verso di noi, secondo gli autori, ben oltre quel ‘77 che le precedenti pubblicazioni della collana avevano creduto per convenzione poter essere l’ultimo termini di vita ma soprattutto di vitalità del fenomeno.