La forma dell’intervista è una complicità «fra due che si parlano»: così Rossana Rossanda introduce il suo libro «Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento» (Einaudi, pp 243 euro 17,50). Venti intervistati, tutti uomini perché, sottolinea l’autrice, questa è la storia della politica che ha escluso le donne. Non un «come eravamo» ma un monito: a pensare. E in grande, riproponendo i non conclusi temi del «secolo breve» che, già nel primo decennio del nuovo secolo mostrano la loro cogente attualità e urgenza. Aggregato per temi piuttosto che cronologicamente – le interviste, uscite su il manifesto quotidiano comunista tranne quella a Sartre pubblicata nel settembre 1969 sul Manifesto rivista, vanno dal 1965 al 1998.

Per Rossana Rossanda il nodo della crisi delle società del capitalismo maturo è ancora all’ordine del giorno in epoca globale, non bisogna abbandonare il campo della riflessione sull’89 (sul tramonto dei socialismi realizzati nell’est europeo), ma anche sulla caduta dei compromessi socialdemocratici. In buona sostanza torna d’attualità la domanda sul comunismo. Con nuovi strumenti critici a sinistra, sapendo che «con il volgere del secolo, di sinistra, anche della più moderata, non rimane nulla», arresa com’è al liberismo. E mantenendo aperta la porta ai paradigmi culturali affatto diversi dal movimento operaio tradizionale: il femminismo e le questioni di genere e le correnti ecologiste realtive ai limiti dello sviluppo – qui l’intervista a Ignacy Sacs è illuminante.

Una fondamentale «ontologia»

Con György Lukacs – questa prima intervista non è della «comunista eretica e sessantottina tardiva» ma dall’ancora esponente del comitato centrale del Pci – si parla di letteratura, ma è un espediente. In realtà al centro ci sono l’ombra del XX Congresso, la tragedia ungherese del ’56, i limiti della pianificazione derivata dall’Urss e la critica alle categorie della psicanalisi e dell’esistenzialismo intese come possibili «integratori» del marxismo. Si può già individuare un punto centrale da cui ripartire? Chiede Rossana Rossanda. «Marx ha cominciato dall’analisi della struttura e anche noi dobbiamo ripartire da qui – risponde Lukacs, rivelando che in quel periodo sta scrivendo la sua opera fondamentale Ontologia dell’essere sociale – occorre una teoria valida della riproduzione in un sistema socialista…Le nostre pianificazioni sono fallite perché nel periodo staliniano è stata cancellata dalla teoria la dialettica tra valore di cambio e valore d’uso, annullando con ciò di fatto la possibilità stessa di una teoria della riproduzione…».

Il filosofo marxista ungherese è per Rossanda «la mia gente»; non lo era proprio il mostro sacro del comunismo francese e della poesia transalpina, Louis Argon, protagonista dell’incontro più sgradevole del libro e insieme più ironico. Dove si pavoneggia l’intellettuale nazionale, «uomo bellissimo», vanitoso dei suoi versi, ricco per meriti di partito dal quale «prese tutto senza dare nulla», che vive nell’agio nel cuore della Parigi ricca. Esponente di quel Pcf diventato alla fine nemico giurato del nuovo e dei movimenti emersi nel ’68 e che, nell’intervista, non perde occasione di sferzare il «fratello minore Pci». L’intervistatrice non ne può più e, mentre Aragon si parla addosso, lei tenta di uscire dalla sala dell’incontro, ma quello la riacciuffa con la sua sicumera. Quando alla fine riuscirà a guadagnare la strada, Rossana sarò così frastornata da cadere per terra ai primi passi tra le foglie bagnate, sopraffatta dal tanto peso di sé di un essere umano. Chiedendosi: «Che comunismo era il suo?”

Inconciliabilità e punti ciechi

Punti focali del libro le interviste a Jean-Paul Sartre e a Louis Althusser. La prima, Partiti e movimenti due realtà inconciliabili, del settembre ’69, realizzata nell’imminente radiazione del gruppo del Manifesto dal Pci, anticipa l’elaborazione che sul Manifesto rivista la stessa Rossanda fece con il titolo Da Marx a Marx, sui limiti della forma partito e sulla necessità di un nuovo, centrale ruolo, e insieme qualità, dei movimenti di massa. Con l’elaborazione di quella che si chiamò «strategia consiliare». A rileggerla traspare come una profezia sull’universo informatico-telematico dei nostri giorni. Perché Sartre, nel rendere evidente l’elemento vincente del partito rispetto ai soli gruppi informali, li chiama «in fusione», riconoscendone però la loro immediatezza e rappresentanza diretta: come non pensare allo status delle nuove mobilitazione politiche e gruppi nati e codificati su web? Con la loro consumabilità momentanea e caducità temporanea, senza una memoria lunga che, pur non essendo necessariamente del «partito», non sia tuttavia solo seriale ma duratura e superiore alla rappresentanza politica che non c’è più.

La seconda ad Althusser, Il punto di cieco di Marx, la questione dello Stato, è dell’aprile 1978 e prende spunto dalle sue affermazioni fatte al convegno del Manifesto di Venezia (novembre 1977) sull’inesistenza in Marx di una teoria dello Stato. Qui insiste sul comunismo «come tendenza e realtà interstiziale» al capitalismo in crisi, come sulla necessità di non rendere «vaga» la percezione di questa tendenza, di dirlo insomma il comunismo nei suoi obiettivi programmatici. Materialisticamente e non idealisticamente come fosse una evocazione «feticista». Ma l’equivoco più grande è lo Stato, al quale tutto, società politica, partito e sindacato – perdendo così la loro natura di classe -, si riduce. E non ci sono dissimulazioni sulla presunta novità dello «Stato allargato»: «Lo Stato è sempre stato allargato». Nell’introduzione l’autrice parla della sua imperitura amicizia con Althusser e con la moglie Hélène Rytman, fino alla prova estrema: «Le circostanze mi portarono a essere vicina a loro due nei giorni in cui egli la uccise; resto persuasa che non volesse affatto la sua morte, ma non fosse in grado di ascoltare quel che lei pensava di avere scoperto proprio allora sull’origine della sua malattia e aveva imprudentemente deciso di dirgli».

Ecco la luce affettiva della speranza. Quella del militante sessantottino Etienne Grumbach, cuore pulsante delle agitazioni operaie alla Renault di Flins, che non dismette mai l’impegno del suo «pessimismo attivo». Così come speranza e passione traspaiono dagli incontri di due massimi analisti delle crisi internazionali, Maxime Rodinson del Medio Oriente e Paul Sweezy degli Stati uniti.

Le crisi attraversate e infinite

L’intervista a Rodinson è del 5 agosto 1982, pochi giorni prima del massacro a Beirut di Sabra e Chatila. Egli non avverte che la negazione di una soluzione, anzi la cancellazione da parte dell’Occidente e di Israele della crisi di tutte le crisi, quella palestinese, e il suo abbandono all’occupazione militare israeliana, alle colonie che si espandono e al Muro dell’apartheid, avrebbe comportato – insieme ad una frattura anche violenta del movimento palestinese stesso – una radicalizzazione ideologica, nella fattispecie islamica, in tutti i Paesi arabi, con il ritorno della guerra imperiale all’ordine del giorno. Così come Paul Sweezy non comprende che gli Stati uniti, pur mantenendo «le spese militari come elemento essenziale della stabilità americana» avevano deciso il ritiro dal Vietnam – a questo puntava il viaggio del ’71 di Nixon a Pechino – e che quella vittoriosa lotta di popolo maturava un ridisegno del conflitto globale nella Guerra fredda: in Asia con la guerra civile in Cambogia e la svolta epocale cinese, in Africa con lotta al neocolonialismo, in America Latina con i golpe.

Così, un brivido si prova alle parole del presidente cileno Salvador Allende che Rossana incontra nel ’71 nel palazzo della Moneda. Si avverte la sua solitudine, lo sforzo immane, l’equilibrio difficile per sostenere il «cambiamento socialista». E la sua tragica e malriposta fiducia nella lealtà dei militari. Mentre se la prende con il nipote del Mir che, attaccando l’esercito, «gioca col fuoco». Perché «…qui se l’esercito esce dalla legalità è la guerra civile. È l’Indonesia. Credete che gli operai si lasceranno togliere le industrie? E i contadini le terre? Ci saranno centomila morti, sarà un bagno di sangue». Sappiamo com’è andata.

Stessa emozione per l’incontro a Lisbona con il maggiore Ernesto de Melo Antunes, leader della rivoluzione dei garofani, nel disadorno palazzo del parlamento di San Bento. «Quel che oggi possiamo fare è cambiare il modo in cui finora si è pensato lo sviluppo, e cioè sempre e solo in termini di accelerazione di produzione e investimenti. Noi preferiamo parlare di una via socializzante…». Era il gennaio del 1975. Noi, al seguito, assistevamo ai seminari di Rossana Rossanda al Centro Gubelkian, il dopolavoro dello stato maggiore portoghese, sui processi di transizione. A segnora – così la chiamavano – parlava appassionata e fuori montavano la guardia giovanissimi cheguevara barbuti, soldati in mimetica e mitraglia in spalla, appena rientrati dall’Angola e dal Mozambico. Quanto poteva durare? E non durò. Non capimmo, anche per l’enfasi retorica dei tanti arrivati da tutta Europa a «dirigere» con presuntuose certezze la rivoluzione che, al contrario, chiedeva, come faceva Rossana, di interrogarsi insieme a noi. Che le sconfitte alla fine – e vale anche per noi, adesso – non siano il terreno più fertile da seminare?