Francesco Pecoraro è uno scrittore inattuale – lui ricorre spesso, nei suoi testi, all’aggettivo «novecentesco» – per molte ragioni. Una delle principali è che non si comporta come un semplice narratore ma come un intellettuale complessivo. Pecoraro ha una visione del mondo e intende metterla nei suoi libri: non sono molti i romanzieri italiani di cui si possa dire la stessa cosa. Accadeva in La vita in tempo di pace, uno dei romanzi italiani più importanti degli ultimi vent’anni, e accade oggi in Lo stradone (Ponte alle Grazie, pp. 443, e18,00) – un’opera inclassificabile, centrifuga, magmatica, ma molto bella.

Nella Vita in tempo di pace il romanzo di un destino personale si ibridava di saggismo; nello Stradone l’equilibro romanzesco si sposta verso il saggio. Il personaggio che dice io è uno storico dell’arte nato negli anni quaranta del Novecento, comunista. Negli anni settanta prova a entrare all’università ma non ci riesce; negli anni ottanta, deluso da tutto, trova un impiego al ministero dei lavori pubblici. Il fallimento personale e politico lo corrompe: si iscrive al Psi per convenienza, accetta di prendere tangenti, finisce in galera. Dopo pochi anni torna libero. Negli anni dieci del XXI secolo è un pensionato disilluso che vive al settimo piano di un palazzo postbellico e rimugina.

Una stagione di ristagno

Rimugina seguendo tre linee narrative e riflessive: la sua storia personale, la storia del luogo in cui vive e l’osservazione del presente. Valle Aurelia («la Sacca»: Pecoraro nei suoi libri modifica i toponimi per allegorizzare la realtà) è stato uno dei più importanti insediamenti operai della «Città di Dio», la formula che già Pasolini usava per indicare Roma. A Valle Aurelia sorgevano le fornaci che hanno prodotto i mattoni con i quali, fino al secondo dopoguerra, è stata costruita la città. Fra l’Ottocento e il primo Novecento, la vita del quartiere era modellata dal lavoro durissimo dei fornaciai, dai sindacati, dai partiti di sinistra e dalla fede nella Rivoluzione. Poi, nel secondo dopoguerra, e in particolar modo negli ultimi decenni, la Sacca si trasforma e diventa incomprensibile.
Uomo del Novecento in un mondo mutato, il personaggio dello Stradone osserva un’epoca che ai suoi occhi sembra una lunga stagione di ristagno senza uscita. Ristagno significa due cose. In primo luogo, è il segno che in questa zona del mondo il capitalismo non ce la fa più. «Il Ristagno è il contrario del Miracolo economico», e la figura di questa regressione sono i pensionati di cui la Sacca è piena. Qui il capitalismo non produce più ricchezza, né propone un mito di progresso o un’idea di civiltà che non sia «il vivere per vivere», il tirare a campare. Proprio per questo non sa più contenere l’ostilità che sorge automatica quando la ricchezza diminuisce e classi, culture e etnie diverse convivono non avendo nulla in comune se non «la Squadra» – la squadra di calcio che ogni tanto si epifanizza mentre attraversa il quartiere dietro i vetri oscurati di un pullman preceduto dalla scorta. Correlativo oggettivo di questo stato di cose è la mancanza di forma. Corpi, abiti, ambienti e edifici comunicano degrado o false pretese; le persone sono vestite come ci si veste dopo la «fine della cultura del decoro»; la città che per millenni è stata «maestra di sintassi urbana» nel secondo dopoguerra sembra «fatta a cazzo». Ma per il comunista novecentesco che prende la parola nel libro, il ristagno significa soprattutto la fine dell’utopia politica che aveva dato forma alla storia moderna. «Il civis della Sacca era diversamente disperato dal borgataro successivo» perché il comunismo aggregava, dava dignità e speranza. Ma quel segmento di storia umana non esiste più, e l’unico comunismo possibile, dice il protagonista, è quello interiore. Irrealizzabile come utopia, il comunismo rimane un’idea regolativa, uno «stato interiore di costante dissenso col presente», qualcosa di trascendentale che permette di leggere la modernità capitalistica osservandola da fuori, con lo sguardo dell’estraniato.

«Noi non siam più (…) plebe all’opra china, senza ideale in cui sperar», dice la prima strofa dell’Internazionale nella versione italiana di Bergeret: siamo il «gran Partito dei lavoratori» e lottiamo per costruire la futura umanità. Oltre un secolo dopo, Lo stradone ci mostra l’epoca in cui la storia rifà il cammino all’inverso e la classe operaia diventa piccola borghesia cinica o torna a essere plebe. Tommaso Labranca, che Pecoraro cita esplicitamente, lo chiamava «neoproletariato», quello che «sogna tre cose che cominciano per F: fitness, fashion, fiction». Per Pecoraro questa non-classe è la fascia bassa del «Grande Ripieno», il corpo sociale indistinto che sta fra i pochissimi ricchi, globali e invisibili, e i disperati che vivono nei cartoni e, come versioni ultramoderne dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, rovistano nei cassonetti del quartiere.

Opera che contiene pagine di microstoria e di pura riflessione, il libro deve la propria forza alla capacità di osservare, mimare e decostruire il presente collocandolo in una pluralità di tempi: la cronaca, la storia politico-sociale degli ultimi due secoli, la storia di lunga durata e il tempo lunghissimo dell’evoluzione della specie. Pecoraro è un lettore di Braudel, di Darwin e di etologia, e si vede. Nei suoi libri il contemporaneo si intreccia con l’arcaico – nella descrizione dei nuovi cacciatori-raccoglitori che setacciano i cassonetti, per esempio, o nell’analisi dei riflessi carnivori che si risvegliano nel pensionato alla vista del prosciutto in macelleria, o nel modo in cui vengono narrati i microeventi che accadono nell’unica agorà del quartiere, il Bar Porcacci. Questa capacità di osservazione è innervata da uno stile che lavora sull’ampiezza del lessico, muovendosi tra gli estremi dei registri colti e del parlato neodialettale – tra «brago» o «esodomestico» e «sticazzi» o «gentirmente».

Tra comico e pietà
Molti citeranno Gadda, ma la questione è meno semplice di così. È anche grazie a quest’ampiezza che molte pagine dello Stradone fanno ridere. Ma alla fine il comico, così come lo smarrimento e la rabbia, convivono nel libro con una forma di pietà: pietà di sé e degli altri, della loro vita cinica e disperata, ma spersa e in ultima analisi innocente. È significativo che per la migliore narrativa italiana contemporanea la vera città allegorica del presente sia Roma. Roma è il corrispettivo di quella parte di Europa che non ce la fa più: non ce la fa a creare ricchezza e civiltà, a amministrare la cosa pubblica, a gestire i conflitti, a pensare la città, a proporre un sistema di valori collettivi che non sia la pura sopravvivenza. Lo stradone non parla di Roma: parla di ciò che Roma, oggi, permette di capire.