I rapporti tra sport e politica sono al centro del libro Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978 (Mimesis). Una sezione è dedicata allo spazio globale dello sport, a partire dai movimenti che nel ‘68 hanno scosso la scena sportiva. Ne parliamo con gli autori Alberto Molinari e Gioacchino Toni, che domani nell’ambito di Bookcity, alle ore 12 presenteranno il libro alla Fondazione Feltrinelli di Milano, in via Pasubio 5, insieme agli storici Sergio Giuntini e Stefano Pivato.

Il ’68 riguardò anche lo sport?

In tutto il mondo il ’68 aprì una stagione di conflitti animata da una molteplicità di attori, che esprimevano una richiesta di partecipazione e di allargamento degli spazi di democrazia, rivendicavano diritti, rifiutavano i sistemi autoritari, criticavano le strutture politiche e sociali dominanti, si ispirarono a ideali di emancipazione e di liberazione. La conflittualità si riverberò anche nello sport, facendo emergere le contraddizioni inscritte in uno dei più importanti fenomeni di massa e mettendo in discussione la sua presunta neutralità. Considerati tradizionalmente luoghi chiusi, neutri e pacificati, ostinatamente difesi dall’establishment sportivo, gli spazi dello sport ancora oggi vengono riconfigurati come aperti, fluidi e contesi. La risignificazione degli spazi sportivi e della loro valenza simbolica, avvenne attraverso gesti e azioni eclatanti di risonanza mondiale: il rifiuto da parte di Cassius Clay di arruolarsi nell’esercito americano che combatteva in Vietnam, il pugno chiuso di Tommie Smith alle Olimpiadi di Messico ’68, momento culminante del movimento sportivo afroamericano contro il razzismo, le mobilitazioni del Maggio francese nello sport, in particolare nel calcio, la Primavera di Praga degli sportivi cecoslovacchi, i boicottaggi delle competizioni che prevedevano la presenza di paesi allora razzisti come il Sudafrica e Rhodesia.

La “neutralità” dello sport vacillò?

A fronte delle grandi manifestazioni sportive sempre più spettacolarizzate e condizionate dalle logiche di mercato, perse credibilità la retorica dello sport “zona franca”. Dai Giochi invernali di Grenoble del 1968 alle Olimpiadi di Montreal del 1976, passando per l’edizione olimpica di Monaco ’72, segnata dalla drammatica irruzione dei palestinesi di “Settembre nero” nel villaggio olimpico e conclusa con la strage all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, il sistema sportivo internazionale mostrava crepe sempre più profonde che incrinarono la tradizionale ideologia dell’“olimpismo”.

Il ’68 costrinse la sinistra europea a riconsiderare lo sport?

A ridosso del Maggio francese la rivista Partisans, vicina all’estrema gauche, pubblicò interventi di giovani impegnati nella ricerca teorica e nella militanza politica, come Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm, pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione. Attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, i saggi proponevano uno studio critico sullo sport e sulla cultura del corpo nella società capitalistica, denunciavano come sotto il pressante invito a fare sport da parte della cultura borghese si celasse un intento educativo di stampo repressivo. Nel 1970 fu pubblicato in Italia Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista del sociologo tedesco Gerhard Vinnai, svelò il carattere mistificante dell’ideologia, che pervase anche il mondo dello sport e in particolare il calcio, denunciava la sua mercificazione e individuava i nessi che lo legavano ai processi di socializzazione e alle dinamiche psicologiche dell’aggressività e del narcisismo. Il terzo saggio, pubblicato in Italia alla vigilia delle Olimpiadi di Monaco del 1972 è Olimpiadi dello spreco e dell’inganno di Ulrike Prokop, evidenziò le ambiguità e le contraddizioni dell’ideale olimpico, ammantato di valori come pace, fratellanza, che attraverso lo sguardo sociologico venivano ricondotti ai loro nessi con le strutture economiche e le ideologie dominanti.

Sono ancora attuali?

C’erano forzature ideologiche che restituivano un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo, mentre storicamente rappresentano i primi tentativi di suggerire percorsi di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.

I riflessi del ’68 sullo sport italiano?

Nel 1974 gli organismi sportivi democratici e i movimenti “terzomondisti”, appoggiati dalla stampa di sinistra, chiedevano, senza successo, di boicottare la semifinale di Coppa Davis Sudafrica-Italia. Poco dopo un ampio fronte di opposizione riuscì a bloccare la trasferta italiana degli Springboks, la nazionale sudafricana di rugby di soli bianchi, simbolo dell’apartheid nello sport. Nel 1975 le polemiche investirono la partita di calcio Lazio-Barcellona, prevista all’indomani dell’ultimo efferato episodio di repressione delle opposizioni messo in atto dal regime di Francisco Franco. Il 1976 fu l’anno della contestazione di una nuova trasferta della nazionale di tennis, questa volta per la finale di Coppa Davis nel Cile di Pinochet. Attorno all’evento si giocò una partita politica animata da un vasto movimento di opposizione, che investì il mondo dello sport italiano, coinvolse la stampa, in primis il manifesto gli schieramenti politici, le forze sociali, scontrandosi col potere politico-sportivo, arroccato in difesa della “neutralità” dello sport, e con le resistenze conservatrici che allignavano nella società italiana. La mobilitazione non raggiunse il suo obiettivo, ma dimostrò che anche attraverso lo sport si possono manifestare impegno e passioni civili, incrinando una realtà considerata avulsa dal contesto politico e sociale. Con le campagne contro i mondiali di calcio organizzati dal regime di Videla nel 1978 in Argentina si esaurì l’“onda lunga” del ‘68 nello sport.