Novant’anni fa, anche negli Stati Uniti, le ragazze desideravano diventare come le protagoniste dei romanzi che leggevano, dei film che vedevano o delle riviste che sfogliavano. Niente di più e niente di meno di quello che una società sottilmente ma pervicacemente maschilista voleva per loro.

Nello stesso periodo, tuttavia, molte cominciarono a pensare allo sport, incuranti degli abiti da sera o della carnagione di seta. Poiché non si preoccupavano di apparire graziose e rassicuranti, destavano sospetti.

Il pattinaggio sul ghiaccio era ammissibile, perché aggraziato e leggiadro; al nuoto, i perbenisti si erano abituati e avevano appena ingoiato la messa al bando delle calze di cotone e dei costumi ingombranti che fino a poco tempo prima le donne dovevano indossare anche in acqua.

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Alice Marble in una pubblicità di calze

Maschiacci impenitenti

E poi c’era il tennis, lo sport per eccellenza delle pudiche signore della high society. Solo che, proprio allora, emersero campionesse che sfidavano gli stereotipi femminili: Helen Jacobs, Molla Mallory, Helen Wills Moody erano troppo fisicamente prestanti e determinate per riuscire accettabili al sistema dei media, che le descriveva come dei maschiacci impenitenti in odore di omosessualità.

Se una donna non poteva competere duramente come un uomo, cosa dire allora di Alice Marble?

Bionda e attraente, vagamente rassomigliante a Jean Harlow, la coeva stella del cinema, la californiana fu la prima donna a praticare con successo il serve-and-volley, fino ad allora esclusiva degli uomini. Secondo il New York Post, le sportive potevano essere belle come attrici, ma non si era ancora vista una donna che facesse una figura migliore brandendo una racchetta invece di una padella. Marble non si scoraggiò: per emergere, aveva dovuto superare ben altre avversità.

Nata nel 1913 in una cittadina della Sierra Nevada, a cinque anni si trasferì con la famiglia a San Francisco. Lo sradicamento fu peggiorato dalla subitanea morte del padre, un boscaiolo, le cui magre entrate la madre fu costretta a surrogare per sfamare i cinque orfani. Alice giocava con i fratelli, imparò persino a boxare, a giocare a basket e soprattutto a baseball, e come lanciatrice svettava al punto da meritarsi l’appellativo di «piccola regina della sventola». La lasciò, la mazza, a quindici anni, quando il fratello Dan le regalò una racchetta, imponendole uno sport più signorile. Cresciuta fino a 170 cm, vi trasferì il suo prorompente atletismo, l’addestrato colpo d’occhio e il vigore del braccio forgiato dai lanci del baseball. Benché acerba tecnicamente e tatticamente, si fece strada fra le coetanee e attirò l’attenzione di Eleanor Tennant, l’allenatrice dei divi del cinema, che l’accolse nella sua scuderia.

Un’attaccante insuperabile

Lavorando nella villa della sua guida, Alice si pagava gli allenamenti, ai quali incrociava spesso Charlie Chaplin, Carole Lombard o Bing Crosby. Si trasformò in un’attaccante insuperabile e impose lo stile offensivo che avrebbe in seguito improntato il gioco di Billie Jean King, Martina Navratilova e oggi di Serena Williams. L’accantonamento dei tradizionali gonnellini bianchi per più comodi shorts e l’aggressività del suo gioco scioccarono il mondo del tennis, strabiliato dalla non meno sensazionale solidità nervosa. Secondo Marble, alla sua saldezza psicologica aveva paradossalmente contribuito uno stupro subito da teen-ager: resistette al crollo nervoso e si dedicò con ancor maggior ferocia al tennis, come fonte di recupero e di autostima.

Nel 1933, al torneo di East Hampton, per convincere la federazione a includerla nella selezione nazionale, disputò singolare e doppio, finendo per accumulare ben 11 set e 108 game in sole nove ore, fino a che non fu tramortita da un colpo di calore e dall’anemia.

L’anno successivo, al Roland Garros, cadde vittima di un altro collasso. I medici le diagnosticarono pleurite e tubercolosi, pronosticandole un futuro lontano dai court. Per un anno fu costretta in sanatorio, circondata da medici che cercavano di curare il suo corpo senza occuparsi della sua mente. I giorni si susseguivano senza significato uno dopo l’altro e Marble precipitò in una profonda depressione. Tennant pagò per la sua degenza, ma poi l’aiutò a lasciare l’ospedale dove stava avvizzendo come un fiore senza nutrimento.

Dimagrì, la muscolatura riprese tono ed elasticità, i livelli di emoglobina risalirono e tornò all’amata racchetta.

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Il “centrale” di Flushing Meadows.

Il primo di tre Slam

Fu la panacea: la salute migliorava non meno velocemente del livello di gioco. Contro il parere della federazione, si iscrisse ai campionati nazionali di Forest Hills, gli odierni Us Open, e giunse alla finale. Il 12 settembre 1936, affrontò Jacobs, la campionessa in carica: con sua stessa sorpresa, rimontò e al terzo set, più fresca dell’avversaria, la sommerse con il suo stile d’attacco, trasformando il match-point con un potente smash.

Fu il suo primo Slam.

Ne avrebbe aggiunti altri tre a New York, uno a Wimbledon e altri tredici nel doppio, fino a che la guerra raffrenò il suo slancio.

Sposò il pilota Joe Crowley e rimase vedova quando il marito fu abbattuto sopra la Germania nel 1944. Solo pochi giorni prima, aveva perso il bambino che portava in grembo per un incidente d’auto. Dopo aver tentato il suicidio, accettò un incarico dai servizi segreti.

Sfruttando il vecchio legame d’amore con un banchiere svizzero, doveva avvicinarlo e impossessarsi di alcuni dati finanziari del Terzo Reich. Per questo, si beccò una pallottola nella schiena quando fu scoperta da una spia tedesca, ma fu salvata dagli agenti con cui teneva i contatti durante la missione.

Dopo la guerra, Marble decise di schierarsi per la desegregazione nel tennis, sostenendo il diritto della nera Althea Gibson di essere ammessa allo Slam americano. Scrisse una dura lettera di critica alla federazione, spendendo tutto il suo peso di ex numero uno del mondo, e nel 1950 Gibson fu la prima atleta nera a giocare a Forest Hills – li avrebbe poi vinti, insieme al Roland Garros e a Wimbledon.

Marble se ne andò nel 1990, infine sopraffatta dagli effetti della mai debellata anemia, e un quarto di secolo dopo non si può fare a meno di domandarsi perché una vita così avventurosa non sia ancora finita in un film hollywoodiano.

Scheda: U.S. Open, i soliti noti sotto il tetto retrattile

August 26, 2015 - Rafael Nadal practices for the 2015 US Open at the USTA Billie Jean King National Tennis Center in Flushing, NY.
Rafael Nadal si scalda durante lo US Open 2015 foto Reuters – LaPresse

La 136esima edizione degli US Open da ieri in scena a Flushing Meadow (dal 1978, il torneo non si tiene più a Forest Hills, dove vinse Alice Marble), si segnala prima di tutto per il tetto retrattile, installato sul centrale intestato ad Arthur Ashe, primo nero a vincere il torneo nel 1968 e morto per le conseguenze dell’Aids nel 1993.

La copertura, fatta di 6.500 tonnellate di acciaio, è la più grande del mondo per uno stadio di tennis e si chiude in soli sette minuti, aumentando l’affidabilità del calendario per i giocatori, gli spettatori e le tv, che non dovranno più sottostare ai capricci del meteo newyorkese. Il tetto otterrà anche il beneficio collaterale di attenuare il vento, che talvolta soffia con veemenza nel Queens, e attutirà il rombo dei jet che atterrano e decollano al vicino aeroporto «Fiorello La Guardia».

I tabelloni sono comandati dai soliti noti, Novak Djokovic e Serena Williams. Il serbo difende il titolo dello scorso anno, ma è reduce da una precoce eliminazione a Wimbledon, dove ha vinto Andy Murray, che sarà il suo rivale più agguerrito, e alle Olimpiadi è stato eliminato al primo turno dal redivivo Juan Martin Del Potro, che a New York sarà la classica mina vagante.

Fra le donne, è prevista maggiore incertezza, soprattutto se Williams non saprà tenere a bada i fantasmi che ogni tanto visitano la sua mente. Gli azzurri, dopo la clamorosa finale all-italian del 2015, quando Flavia Pennetta sconfisse Roberta Vinci, faranno fatica ad arrivare alla seconda settimana di gioco. p.b.