Nella desolata landa di Nemat Abat l’ultima fabbrica di mattoni sta per chiudere di cinquanta che ce n’erano una volta. È Dashte Khamoush (The Wasteland), opera seconda dell’iraniano Ahmad Bahrami allievo di Kiarostami, in concorso a Orizzonti. Nella polvere e nel caldo soffocante di quella «terra desolata» lavorano famiglie intere, adulti, vecchi e bambini e perfino curdi, malvisti da tutti per la poca propensione a rispettare le regole religiose e che sono gli unici a tentare qualche debole ribellione per le condizioni di lavoro. Caratteristica dei padroni è infatti non pagare il dovuto, anzi non pagare affatto e, come i politici, usare sempre il futuro, verbo inutile. L’impossibilità di ogni tipo di lotta è tutta nella struttura piramidale di quel microcosmo con un padrone apparentemente benevolo, l’operaio più anziano e servile, che fa da mediatore di conflitti, e i lavoratori totalmente sottomessi ma inclini alla delazione. Tutti ripetono ciclicamente la loro parte, nessuno uscirà dal suo ruolo, neanche lo spettatore che alla fine dovrebbe aver capito qualcosa in più del conflitto capitale-lavoro.

IL FILM dalla struttura ad andamento circolare indica l’impossibilità di uscire dalla situazione, un vento che non smette mai di soffiare è l’impetuoso sonoro dei secoli che forse vorrebbe dire qualcosa ma non si fa ascoltare. Il bianco e nero fa risaltare la polvere sollevata nell’aria che si posa sugli stracci indossati. Solo il bianco splendente del ghiaccio che arriva da lontano sul carretto luccica come prezioso gioiello inuna terra di miseria assoluta.

A OGNI GIRO di ripresa circolare la camera esplora l’ufficio del capo, gli anfratti della fabbrica, la piana all’aperto dove i mattoni vengono impastati dal fango argilloso (tra l’altro il mattone è un oggetto estremamente emblematico per le sue allusioni cinematografiche a partire dall’Uomo di Marmo). E si scoprono via via i rapporti tra i personaggi, e soprattutto i discorsi sempre uguali del padrone («ora la cassaforte è vuota, quando avrò i soldi vi pagherò»), la muta accettazione dei lavoratori, la condizione ancora più infima delle donne, che sono le uniche però a non credere alle favole. Una ronde infernale, un popolo di morti viventi che le bianche lenzuola usate per la siesta non coprono solo per isolare dalla polvere, ma anche per indicare il loro annullamento. Il padrone deciderà improvvisamente di chiudere la fabbrica e licenzierà tutti.
Quasi specularmente, ma con la diversa scelta estetica del racconto tradizionale, ci si sposta in India con Meel patthar (Milestone) di Ivan Ayr che in Orizzonti del 1918 aveva presentato Soni, dove una poliziotta al lavoro contro la violenza sulle donne mostrava tutte le contraddizioni sociali.
In Milestone si ribadisce la logica dell’economia senza regole e diritti nella metropoli New Delhi, dove un piccolo padrone decide della vita del personale, con le stesse parole sentite nell’arcano Wasteland, blandendo e promettendo. Un camionista di lunga esperienza che lavora senza sosta anche per dimenticare la recente morte della moglie deve nascondere di non essere più in perfetta forma per evitare che il giovane apprendista prenda il suo posto.

NEL CHIUSO della cabina di guida (il camion è un altro grande dispositivo cinematografico) arrivano le grida delle manifestazioni, i conflitti, gli scioperi in corso in città, nel ritorno alla campagna del protagonista Punjabi trapiantato a Delhi il racconto si arricchisce di riferimenti sociali. Altri due film indiani sono in programma alla Mostra: The Disciple di Chaitanya Tamhane in concorso e Anita di Sushma Khadepaiun sull’indipendenza femminile, in competizione per i cortometraggi.