«Qual è il primo film che ti ha impressionato?» Il libro inizia così, con una domanda bruciante, come in un gioco di società, di quelli che andavano di moda tra la seconda metà dell’Ottocento e il nuovo secolo (Fabrice Touttavoult – cioè Jean-Claude Lebensztejn – ne ha fatto un resoconto preciso in un saggio intitolato Confessions. Marx, Engels, Proust, Mallarmé, Cézanne, Belin, 1988). Qual è il colore preferito di Marx? E quello di Cézanne? Una sorta di gioco della verità, frivolo e insieme implacabile, a volte crudele. Qualcosa che fa emergere, espone, la sfera intima, personale. Un gioco con il tempo, pure. Con la propria biografia. Dunque: «Qual è il primo film che ti ha impressionato?» Come rispondere? Rossana Rossanda ricorda Trader Horn «un film sui trafficanti d’avorio. L’avrò visto nel 1934 o 1935, c’erano dei morti appiccicati sugli alberi, li ho sognati di notte. C’è un terrore che appartiene all’infanzia, è il grande buio di quel che non si sa, e nel quale potremmo cadere». Insomma, che cosa ricordiamo dei film che abbiamo visto, che ci hanno ri-guardato?

Ben venga dunque questa lunga intervista, o meglio, questo lungo dialogo tra Rossana Rossanda, Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, dal titolo così preciso: Il film del secolo. Come se la memoria si fosse depositata non tanto su una tavoletta di cera, ma su qualcosa di infrasottile, lo strato dell’emulsione di una striscia di pellicola, e noi potessimo muoverci avanti e indietro, grazie a una moviola: e ci fossero permessi degli arresti sull’immagine, arresti d’immagine, senza paura che la pellicola possa bruciare (come in un incubo freudiano: «Padre, non vedi che brucio?»). Avanti e a ritroso lungo il film del secolo, isolando dettagli, focalizzando il ricordo, oppure plasmandolo, modificandolo, alterandolo inconsciamente. Il cinema, il ruolo cruciale che ha giocato nel XX secolo, non è solo legato a questioni estetiche, sociologiche, formali. Piuttosto, il cinema ha reso possibile una mutazione della memoria, legata alle condizioni di proiezione. Come se lo stesso spettatore non cessasse di ripensarla, aggiustandone la struttura, lavorando ininterrottamente attraverso una sorta di “secondo montaggio” (una proiezione differita del film). E il film in questo caso (la pellicola sottile e fragile) è proprio quello del secolo scorso. Ciò che mi domando leggendo questo magnifico scambio di vedute, riflessioni, polemiche, sorrisi mal trattenuti, amorevoli lavate di capo («Quanto a voi, mi sono arrabbiata quando avete attaccato i manifesti di Guerre stellari o L’impero colpisce ancora o Reds sulla parete davanti alla mia scrivania.»), è appunto questo: il modo in cui la memoria vi lavora, il modo in cui gli argomenti vengono affrontati, i salti, gli spostamenti e le connessioni, il montaggio (il ‘900 come secolo del “montaggio”, diceva Ernst Bloch) sono legati a una modificazione strutturale, antropologica, resa possibile dalle condizioni di proiezione, in grado di lavorare la nostra biografia? Nell’arco di qualche decennio il cinema ha cioè reso possibile una mutazione storica della specie, modificandone il pensiero, rielaborando cioè l’atto stesso della memoria? E’ il cinema insomma ad aver accentuato questa specie di correzione del processo di simbolizzazione e di pensiero? Qualcosa come un granello che finisce per rendere labile qualsiasi archiviazione.

Osservando le immagini di sale cinematografiche ormai simili a rovine (The Canyons), quelle vuote eppure spettrali, colme di elettricità (il bagliore schermico), fotografate da Hiroshi Sugimoto, e i check-in dei multiplex, viene da pensare che Il film del secolo, giunga proprio in tempo per fare i conti con questa invenzione senza futuro, questa impressionante proiezione di luce che ci è stata destinata.

Ed ecco come lavora. Pagina 33. Ricorda Rossanda: «Mi è rimasta in mente un’operaia sindacalista sulla cinquantina; mentre la accompagnavo alla fermata del tram, si interruppe per mostrarmi su “Gente” o “Bolero” lo strascico di Soraya alle nozze – metri e metri di spuma ondosa. “Ma perché leggi questa roba?” le chiesi. “Per togliermi dalla testa come vivo,” mi rispose ridendo. Una decina di anni fa, nel Veneto, una giovane di una fabbrica metalmeccanica minore mi spiegava: “Prima devi studiare la macchina con cui hai a che fare, perché può essere pericolosa, ma quando la conosci devi lavorare pensando a qualsiasi altra cosa, sennò diventi matta.” E mi precisava: “Per conoscere la macchina ci metti al massimo una settimana.”». Improvvisamente, non so perché, mi ritrovo a pensare a un film di John Gianvito. Stati Uniti. Un incessante ripresa di lapidi o monumenti alla memoria di anonimi lavoratori uccisi durante manifestazioni. Tombe di vecchi capi indiani. Oppure targhe in memoria di donne che si sono spese per i propri diritti. Targhe e monumenti ormai dissolti in un panorama urbano che spesso li inghiotte, rendendoli quasi invisibili tra lunghi camion che solcano le highways, o centri commerciali varcati con passi da sonnambulo.

Non so se il cinema abbia “formato” culturalmente la società. Credo che abbia modificato il nostro modo di pensare: una donna alla catena di montaggio e un film dolente, costellato di targhe commemorative. Il film si intitola Profit Motive and the Whispering Wind. Mi piacerebbe mostrarglielo.