Dunque non c’era da preoccuparsi eccessivamente. Ora siamo alla rimozione di massa, attuata per le vie brevi, senza preoccuparsi troppo del significato costituzionale e degli effetti che una simile decisione avrà sul futuro del sistema parlamentare complessivo. Massima disinvoltura, minima consapevolezza.
Proviamo allora a ripetere le ragioni di diritto parlamentare e costituzionale che si oppongono alla decisione assunta; considerazioni che dovrebbero – all’opposto – garantire l’inamovibilità dei deputati dalle rispettive commissioni per ragioni di dissenso politico.
Anzitutto, non v’è dubbio che si tratta di un’interpretazione delle disposizioni dei regolamenti parlamentari non conforme alla prassi più consolidata e alla ratio stessa delle norme. La «sostituzione» dei membri designati, che può essere richiesta dai gruppi, ha sin qui (sino al caso Mineo-Mauro) avuto essenzialmente uno scopo funzionale e non invece disciplinare. Sostituzioni idonee a garantire la continuità dei lavori delle commissioni (qualora i membri titolari fossero impediti a seguire i lavori) ovvero ad estendere le competenze tecniche delle commissioni (qualora su una questione specifica un parlamentare avesse una conoscenza più approfondita).

La libertà di mandato non entrava, invece, mai in discussione; il richiamo alla disciplina di partito – che pure poteva essere invocato per ricondurre il singolo al rispetto della volontà del gruppo – aveva altre via per manifestarsi.

E qui è il punto costituzionalmente più delicato. Con un eccesso di leggerezza si è sostenuto che quanto scritto in costituzione all’articolo 67 – che assicura a ogni parlamentare di esercitare le sue funzioni (tutte le sue funzioni) senza vincolo di mandato – si dovesse arrestare di fronte alle porte delle commissioni. In quelle stanze, non la costituzione, ma i regolamenti e la disciplina di partito devono dominare la scena. A me sembra francamente una ricostruzione che non regge né sul piano delle fonti del diritto parlamentare (si finirebbe per far prevalere la fonte regolamento rispetto alle disposizioni della costituzione), né sul piano dell’interpretazione costituzionale (la costituzione non distingue tra le funzioni del parlamentare in commissione e quelle svolte in aula).
Se, come ritengo, la garanzia del libero mandato «copre» l’intera attività del parlamentare, allora non possono essere fatte valere ragioni disciplinari (la non consonanza con la linea maggioritaria del partito) per destituire (non solo sostituire) il «rappresentante della nazione» da una commissione in cui esercita la sua funzione; fatta salva un’unica ipotesi: qualora ci fosse il consenso esplicito dell’interessato. Ma questo nei casi dei dieci deputati estromessi dalla commissione affari costituzionali non è dato riscontrare.

È ben vero che ci potrebbero essere conseguenze «politiche» a seguito dei comportamenti difformi dei singoli parlamentari, e che potrebbero farsi valere anche provvedimenti di natura disciplinare: l’espulsione dal gruppo, la non conferma al rinnovo biennale delle commissioni. Ma queste misure riguardano i rapporti tra gruppo e singolo, non possono invece produrre un’impropria limitazione delle funzioni dei parlamentari.
In fondo lo stesso ruolo «referente» della commissione rende poco giustificata la forzatura operata con la rimozione dei dissenzienti. Infatti, l’aula potrebbe pur sempre ristabilire gli equilibri politici ove si ritenesse siano stati turbati in commissione dai parlamentari che hanno espresso liberamente le proprie opinioni e voti difformi.

Se si fosse un po’ più rispettosi dell’autonomia del parlamento ci si accorgerebbe che la libertà dei nostri rappresentanti non può venir meno solo per la volontà di una maggioranza particolare (di governo, di partito o di gruppo), ma che essa deve farsi valere in parlamento approvando «articolo per articolo e con votazione finale» ogni disegno di legge. Questa è la «disciplina» della nostra costituzione.