Se in isole come il Madagascar e l’Australia sopravvivono specie animali uniche al mondo, è grazie all’isolamento. L’isolamento, un po’ come il freddo, conserva. Ornitorinchi, lemuri e canguri non si sono estinti perché parte di ecosistemi insulari, cioè delimitati e remoti. Per isolarsi bene è dunque auspicabile stare su un’isola: prima ancora che dello spirito, un luogo del corpo, difficile da scoprire e da conquistare. Basta sostituire la monarchia all’ornitorinco, i rubinetti senza miscelatore al lemure e la guida a destra al canguro per trovarci di fronte all’unico paese insulare europeo che è l’equivalente culturale del Madagascar e dell’Australia (che non a caso possedeva): la Gran Bretagna.

Ormai ce ne siamo fatti una ragione: in quest’Europa a scartamento sempre più ridotto, la patria di John Stuart Mill, Jeremy Bentham, Winston Churchill e Peter Pan non vuole più starci. Anche prima che l’Ue diventasse una fallita Neverland che rischia essa stessa, come i profughi che tentano disperatamente di raggiungerla ogni giorno, di essere inghiottita dal mare, l’Inghilterra – parte per un tutto, il Regno Unito, che si sta a sua volta sfaldando – vi teneva un piede dentro e uno fuori, cosa ovvia per un paese che ha sempre visto il continente con un misto di diffidenza, condiscendenza e curiosità.

Nebbia nel canale

Anzi, è diventata «Everland», l’isola (sono varie, ma per comodità useremo il singolare) che c’è perché c’è sempre stata: per se stessa, fuori e possibilmente lontano dall’idea oggi agonizzante d’Europa. Che il meno europeo dei paesi d’Europa abbia fatto questa scelta è perfettamente in linea con l’utilitarismo e il particolarismo nazionali, stigmatizzati già trecento anni fa dall’universalista Napoleone Bonaparte, che affibbiò agli inglesi l’etichetta di «nazione di bottegai» senza peraltro rendersi conto che, da Calais in su, l’epiteto suonasse come un complimento. Darwin l’evoluzionista avrebbe orgogliosamente approvato la Brexit. Nei giorni pre e post-referendum, dello splendido isolamento si è parlato a iosa, il famoso detto «nebbia nel canale» è stato citato con insistenza, come anche l’atlantismo e la special relationship con gli Usa. Ma qui non è solo la destra piccolo-grande borghese, quella che ha sempre parlato dei vicini europei come «Europeans» quasi a volersene distinguere, che gioisce.

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Autoritratto del pittore John Everett Millais

In molti, anche nelle zone povere che hanno votato massicciamente per il «leave», soprattutto in chiave anti-immigrazione, sono convinti che il paese possa prosperare autonomamente nell’attuale turbinoso rimpasto delle influenze geopolitiche ed economiche mondiali. E che uscire formalmente dall’Europa, forti di quella geniale – ancorché formale – furbata che è il Commonwealth (dove il common andrebbe letto come our own, nostra), sia una scelta del tutto naturale. Quanto agli europeisti continentali liberali dal cuore sanguinante, farebbero bene a tener presente che in inglese il sostantivo «solitudine» ha due significati: loneliness per l’accezione negativa, solitude per quella positiva. Ancora una volta dopo la seconda guerra mondiale, che ha visto le isole resistere da sole – con l’evacuazione di Dunkerque, il «we stood alone» figura tra i miti fondanti della narrativa bellica nazionale -, contro il tentativo d’invasione tedesca prima che l’alleato americano entrasse in lizza, è tornato il tempo della solitude. «Isola è un’isola, è un’isola, è un’isola»: parafrasare Gertrude Stein aiuta a soffermarsi sulle caratteristiche solo superficialmente banali di un luogo delimitato, metaforico e realistico, tanto facile da difendere quanto difficile da raggiungere. E da abbandonare non solo per i migranti e i richiedenti asilo.

L’invenzione del privato

Un luogo che non potrebbe far parte di un tutto nemmeno volendo e che dunque ha cercato di controllarlo e dominarlo, riuscendoci per un lungo tempo della propria storia. E che, mentre l’Europa stessa prende dolorosamente atto del proprio scivolamento nella subalternità, non accetta la sentenza di declino che il terzo millennio gli pone innanzi. Piuttosto, taglia i ponti con il continente di cui è stata tiepida partner fin dalla seconda guerra mondiale per vedere se il vecchio timone imperial/istico, basato su traffici e commerci e un tempo garantito dal dominio del mare è ancora adatto a mantenere la rotta in acque terribilmente cambiate. Il paradosso è che a non sentirsi europea è in realtà una super-Europa, che meglio del resto del continente ha mantenuto i suoi privilegi, ci si è associata in un’epoca economicamente torbida (gli anni ’70) e ora toglie il disturbo.

Forse basta un piccolo e semiserio tour de force per sorvolare alcune tra le peculiarità culturali e non di questa nazione che produce utopie sociali per poi sforzarsi di confermarne l’irrealizzabilità (basti pensare a Tommaso Moro, Robert Owen, William Morris). Un luogo che ha «inventato» la proprietà privata (le enclosures, nel Settecento), l’agricoltura e l’industria moderne, ha prodotto la Magna carta, per poi comodamente evitare di mettere nero su bianco le regole costituzionali; un luogo che con Enrico VIII ha privatizzato la chiesa a fini privati, e ancora oggi si porta dietro l’odioso, ridicolo e feudale gravame della monarchia, opportunamente tramutato in «azienda». Che ha considerato il mare il proprio mercato, ha conquistato continenti immensi colonizzandoli con lo stesso «buon senso» di quegli altri grandi mercanti imperialisti, i Romani. Tutto nel nome del buon senso empirico-pragmatico del commerciante, abituato a decidere su quanto il mercato gli propone al momento e dunque è antidogmatico, perché sa bene che le condizioni attuali per una transazione potrebbero cambiare.

Con l’avversario di oggi si potrebbero fare affari domani, ed è in quest’utilitarismo dei Mills e Bentham avversari di Marx che in filosofia si annida l’ostilità per le grandi narrazioni. Marx era occhiutamente tollerato nella stamberga di Soho, quando poco meno di un secolo dopo a pensatori continentali liberal-inegualitari in fuga dai totalitarismi come Hayek, Popper e Berlin si srotolavano passatoie e si spalancava Oxbridge.

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Dopo il sommo Shakespeare, a livello letterario il risultato di tanto egoistico buon senso aveva prodotto il grande romanzo borghese. Ma in un sistema sociale a tenuta stagna, alla modernità tecnologica faceva riscontro una certa prudenza estetica, salvo forse le eccezioni di Mary Shelley e Lewis Carroll. Jane Austen ancora infesta l’immaginario contemporaneo, i più grandi narratori e poeti dell’otto-novecento sono soprattutto irlandesi (Yeats, Wilde, Joyce, come anche Bram Stoker, mentre J. M. Barrie era scozzese): il vittorianesimo ha schiacciato sotto la propria pantofola l’idea di avanguardia. Ne è conseguito – a livello pubblico: in privato era tutto un fiorire di spiritismo e sessualità – un provincialismo soffocante, esemplificato in pittura dal languore preraffaellita e da ritrattisti per ricchi come Millais (il cui equivalente odierno è Annie Leibovitz). Tutto mentre la rivoluzionaria Parigi e la decadente Vienna esplodevano d’idee. Ancora negli anni ’50, l’insopportabile Evelyn Waugh sfotteva Picasso nel suo diario, fingendo di non capirlo: è più probabile che fosse turbato dalla rottura della forma che per lui assumeva le sembianze del «disordine» sociale europeo.

Immobilità sociale in note

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E la musica? Almeno fino ai Beatles, ha avuto ragione (l’irlandese) George Bernard Shaw: «Gli inglesi hanno per la musica un amore non corrisposto». Se non si ami a dismisura Britten, il Novecento musicale solo parzialmente si libera dal turgore di certo Elgar – vero compositore ufficiale dell’imperialismo europeo – per precipitare nel sentimentalistico Waughan Williams, entrambi ostinatamente rimasti nella placenta della tonalità e dell’idillio campestre: l’immobilità sociale si fa musicale. La Francia di Ravel e Debussy è stratosferica in confronto, lasciando del tutto perdere Mahler e i maestri dell’Est Europa.

È forte la tentazione di leggere questa mancanza di afflato per il cambiamento, la feticizzazione statale del passato e un’ostilità fisiologica all’idea rivoluzionaria nell’evidenza empirica di un sistema che, modernizzandosi industrialmente ben prima del resto d’Europa, ha resistito a rivoluzioni e invasioni, ha scongiurato i totalitarismi (moderni) annacquando il proprio (antico). Che non è mai stato conquistato e dove le aziende sono amate come i monumenti (la fine dei vetusti grandi magazzini Woolworths ha suscitato un’ondata di commozione, e non certo per i posti di lavoro persi).
In sostanza, un sistema che tiene per secoli, comprese due guerre mondiali si tiene: «If it ain’t broken, don’t fix it», se non è rotto non aggiustarlo, recita un detto popolare. Questo aiuta a capire paradossi politici altrimenti assurdi, come un socialismo nazionale: monarchico, imperialista, filonucleare. Forse anche per questo l’isola è sempre stata una scuola gigantesca di dominio: nessun altro ha saputo eticizzare ed estetizzare altrettanto bene la diseguaglianza.

Le altre pagine uscite nella serie Per terra e per mare

1 – Iain Chambers, La schiavitù galleggiante

2 – Marco Bascetta, Il naufrago testimone

3 – Giuliana Misserville, Liquide sponde di piacere

4 – Angelo Arioli, Un miraggio all’orizzonte

5 – Laura Fortini, Un apprendistato di lotta e grazia

6 – Michela Pasquali, I giardini fluttuanti

7 – Andrea Capocci, Il business genealogico

8 – Tommaso Ariemma, La tentazione dell’isola assoluta

9 – Tiziana Migliore, Comunita di folli alla deriva

10 – Simone Pieranni, A cena con la Setta

11 – Federico Condello, Il disorientamento di Ulisse