«La natura della malattia è oscura quanto la natura della vita»: come incisa sull’architrave di una porta, la citazione dagli Studi di medicina di Novalis immette in Amras, seconda opera in prosa di Thomas Bernhard, apparsa nel 1964 a un anno dal romanzo di debutto. Una privazione di luce e una secca, apodittica equivalenza che danno subito la nota fondamentale alla storia: dopo il suicidio, programmato con cartesiana meticolosità, di un’intera famiglia, i due figli non ancora ventenni – in corrispondenza di corpo e di spirito, l’uno incline alle scienze naturali, l’altro alla musica – rimangono casualmente in vita, per essere confinati dallo zio materno in una torre nei dintorni di Innsbruck che è insieme carcere e asilo.

La costruzione è fredda, la luce filtra appena e i giorni si susseguono uguali, dentro nude liturgie della quotidianità che perimetrano un’esistenza residuale, fatta di simbiosi e sfinimenti, contiguità fisiche e solitudini glaciali, pastose mescolanze di dolore e di piacere, sopravvivenze claustrofobiche e dirupi del pensiero. Questa la materia condensata nelle pagine di Amras, ripubblicato da Einaudi, trent’anni dopo la prima edizione italiana, nella sempre bella traduzione di Magda Olivetti, con un’acuta prefazione di Vincenzo Quagliotti («Letture», pp. 87, € 15,00).

La prospettiva è quella di K., maggiore dei due fratelli, già studente di biologia: in un racconto sempre condotto sul lembo estremo della ragione, la voce che narra svolge la storia richiamandone gli antefatti – la vicenda familiare, l’antica prosperità, la rovina finanziaria del padre, la malattia della madre, l’educazione asfissiante e persecutoria, l’esiziale milieu del Tirolo, l’incontro dei linguaggi scientifico e musicale – per poi documentare il declino fisico e spirituale del più giovane Walter, affetto per parte di madre da una grave forma di epilessia, che percorrerà, in un’inesorabile sintassi del pensiero e della volontà, la strada che conduce fuori dalla vita.

Patografia, rievocazione di un passato mai idilliaco e incorrotto, straziante De profundis sul crepuscolo dell’esistenza: Amras racchiude tutto questo nel «chiaro sgocciolio di una chimica mortalmente stanca», con una scrittura volutamente scabra e disarmonica dove convivono, in semplice accostamento, torsi narrativi, lettere, pagine di diario, aforismi, annotazioni. Ancora privo dell’andamento vorticoso, intonato all’ipnotico martello monologico che caratterizza la narrativa del Bernhard più tardo, nella totale assenza di qualsiasi accento cinico e dell’ironia corrosiva che più avanti gli sarà indivisibile, Amras è per certi versi ancora scrittura acerba e grumosa, dove la parola addensa e coagula senza distendersi negli ampi respiri dei romanzi a venire, mostrando dentro contorni sfrangiati, in germe e in rappresa densità, tutti i nodi tematici dei libri successivi insieme a una qualità del dolore più sconnessa e rapsodica.

Atomo esorbitante e frantume di significato, che poco o nulla dividono con la discorsività compiuta dei più grandi e forse più solidi edifici narrativi, Amras sarà per Bernhard, da sempre avverso alle storie racchiuse in perfetta rotondità, fino alla fine il libro prediletto, un campo di forze dove la morte in vita dei fratelli è richiamata attraverso un moltiplicarsi di echi della tradizione letteraria, risonanze, più o meno scoperte, che si rincorrono e si sovrappongono nel tracciato irregolare di una stenografia della psiche e del corpo.

Oltre ai rimandi espliciti al Discorso del Cristo morto di Jean Paul, al Sogno di una notte di mezza estate o ai Diari di Leonardo da Vinci, le pagine di Amras rivelano una densa maglia di riferimenti, sempre sostanziali e privi di ogni concessione alla gratuità citazionale. La torre, che segrega e protegge i due fratelli, luogo della disconnessione dal mondo ma senza più smalto eburneo, è per prima un concentrato di rimandi: dalla torre-biblioteca del sempre amato Montaigne, alla torre dell’ottenebramento nell’ultimo Hölderlin, alla La vida es sueño di Calderón de La Barca, alla Torre di Hofmannsthal e a quella della più recente pièce di Peter Weiss.

Sono però anche altri i fili che corrono sotto la pelle del testo, e il motivo dell’incesto tra i fratelli, che in Bernhard assume tinte di implacabile fisicità, guarda di sbieco verso l’intenso sentimento dei gemelli Ulrich e Agathe nell’Uomo senza qualità di Musil, dove però in Amras la via mistico-sensuale al ripristino dell’interezza è sbarrata per sempre.
Affiora qui e là anche una scia kafkiana, visibile fin troppo nell’iniziale con il punto del fratello che racconta e meglio sfumata in alcune più esili modulazioni sugli Aforismi di Zürau. Sono però soprattutto l’estetica e la letteratura del primo romanticismo tedesco a incidere in profondità nel testo e il carattere dichiaratamente frammentario e disarticolato dell’opera («La consapevolezza che tu non sei che frammenti, che i periodi lunghi o brevi non sono che frammenti che l’interezza non esiste») è un chiaro ponte verso il frammentismo primo-romantico. Una solida intelaiatura novalisiana regge il palco su cui va in scena questa vicenda tirolese, con guizzanti allusioni alle geometrie dei cristalli nel romanzo incompiuto I Discepoli di Sais e sezioni di testo accordate ai toni di un idealismo magico che però, sulla pagina di Bernhard, non mostra più la squillante policromia degli scritti di Novalis e vira verso il nero.
Anche le inquietudini e le scissure dell’io novecentesco sono tutte visibili in filigrana: come nota Vincenzo Quagliotti nel suo saggio introduttivo, uno dei testi-guida in questa ‘storia di fratelli’, e in generale nella scrittura bernhardiana, è Monsieur Teste di Paul Valéry, altrettanto angoloso nell’accostamento di frammenti, epistole, scrittura diaristica e narrazioni in terza persona.

Personaggio imprendibile e respingente, anacoreta dell’intelligenza adamantina, Monsieur Teste è forse la più evidente matrice di quella «solitudine a due cervelli» che Bernhard presenta in Amras, nella partitura di un delirio di alta montagna che a tratti toglie il respiro e che nel paesaggio, insieme orrido e sublime, trova il suo più nitido correlativo oggettivo: «figli della roccia e delle gole, della pornografia della natura, siamo sempre vissuti soltanto nella chimica delle Alpi tirolesi, piena di presagi, ossessionata dalle profezie, ciascuno di noi come un rabdomante del malaugurio, come un igrometro, come una cartina al tornasole della salvezza».