Il massacro di Iguala ha scosso il mondo e le manifestazioni, nella giornata globale indetta dagli studenti messicani, si sono ripetute nei quattro angoli del pianeta. La scritta «siamo tutti Ayotzinapa”, che rimbalza da giorni nella rete, è comparsa su cartelli e magliette dei cinque continenti: a partire da quello latinoamericano, ma anche negli Stati uniti, in Canada, in Europa. Ayotzinapa, sede della Escuela Normal Rural Raul Isidro (appartenente alla catena di istituti rurali, di forte tradizione politica) è diventata il simbolo di chi non s’arrende: all’intreccio di mafia e politica che governa il Messico, allo strapotere di militari e polizia, cresciuto nel business della sicurezza foraggiato dagli Usa per combattere il narcotraffico, non con pane e diritti, ma con le armi. Per esprimere solidarietà ai famigliari degli scomparsi, il governo argentino ha invitato gli Usa a non inviare altre armi in Messico.

Un’esortazione al deserto, essendo il Messico al centro dei nuovi accordi neoliberisti contemplati dall’Alleanza del Pacifico. Gli studenti repressi a Iguala protestavano contro i tagli alla scuola pubblica, seguiti alle misure di privatizzazione selvaggia avviati dal presidente Henrique Pena Nieto. Un tema ampiamente visibile nell’imponente manifestazione di giovedì e in quelle che l’hanno preceduta. E sono in molti a ricordare l’analogia con un altro massacro, compiuto il 2 ottobre di 46 anni fa, nella Piazza delle Tre culture di Tlatelolco. Allora, centinaia di giovani che protestavano in solidarietà al movimento del ’68, sono caduti sotto i colpi della polizia e molti altri sono stati arrestati e torturati. Sfilavano per chiedere il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. Gli studenti di Ayotzinapa erano andati a Iguala proprio per raccogliere fondi da impiegare per la manifestazione che intendevano organizzare in ricordo del massacro di Tlatelolco. Il 2 ottobre di 46 anni fa, gli studenti protestavano contro la povertà estrema e per la mancanza di sanità, educazione, lavoro.

Anche oggi, una delle economie «più dinamiche dell’America latina» (secondo il Fondo monetario internazionale), lascia senza lavoro gran parte dei suoi giovani, che finiscono sovente sul libro paga dei cartelli della droga, o in una fossa comune clandestina. La carovana composta da tre brigate informative, organizzata dai parenti dei 43 scomparsi, ha messo in luce l’estensione delle tombe clandestine in cui giacciono resti di persone che lo stato non si cura di identificare. Solo nel 2013 sono scomparse 19.000 persone, 51 al giorno e oltre due ogni ora. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, le vittime degli ultimi 8 anni, arrivano a circa 30.000, ma la quantità reale potrebbe essere dieci volte di più. Per il sacerdote Alejandro Solalinde, fondatore del rifugio Migranti in cammino, decine di migliaia di migranti sono scomparsi negli ultimi anni. E proprio cercando i 43 studenti in una delle fosse comuni fatta scoprire nei dintorni di Iguala dai narcotrafficanti arrestati, un membro delle brigate di autodifesa comunitaria ha mostrato ai giornalisti un documento e una foto: non era un “normalista”, ma un migrante che il figlio ha così riconosciuto e che ha potuto seppellire.

A Tlatelolco, a protestare era il movimento studentesco, sia quello delle Normal rurales che quello dell’Universidad Universidad Nacional Autonoma de Mexico (Unam), e dell’Instituto Politecnico Nacional (Ipn), e quelli di altre università: inclusi professori, intellettuali, casalinghe, operai e lavoratori dei servizi. Un movimento che si era messo in moto a seguito di una precedente repressione dell’esercito e che raggiunse l’acme a settembre del ’68. Il 13 di quel mese si svolse “la marcia del silenzio” durante la quale i manifestanti sfilarono con un bavaglio bianco per gli arrresti e le torture. Il 18 settembre, l’esercito entrò alla Unam e all’Ipn e se ne andò solo un giorno prima del massacro.
Il 2 di ottobre del ’68, migliaia di studenti si riunirono pacificamente in piazza delle Tre culture, al centro della capitale. E a un certo punto, si scatenò la furia del Battaglione Olimpia, inizialmente creato per la sicurezza dei giochi olimpici di quell’anno. Il saldo fu di centinaia di giovani morti, almeno 2.000 detenuti e 500 detenuti. Il 12 dicembre del 2011, altri normalistas che manifestavano nella Carretera del Sol, a via Acapulco, furono selvaggiamente repressi e due persone morirono. Il 30 giugno del 2014, i militari hanno ucciso 22 persone disarmate, col pretesto che si trattava di criminali (e per questo alcuni sono stati arrestati). Poi, la repressione del 26 settembre che, come il massacro di 46 anni fa, ha inciso fortemente nella coscienza dei messicani. E in molti non vogliono più tornare indietro, sostenuti dalla solidarietà internazionale. Una sola voce ha voluto distinguersi, quella dell’ex presidente colombiano Alvaro Uribe. Ossessionato dalla guerriglia marxista colombiana, ha dichiarato: «E’ colpa delle Farc, che hanno venduto droga ai cartelli messicani».