Al crollo dell’URSS, il Kazakistan era l’unica repubblica in cui la nazionalità «titolare» eponima non costituiva la maggioranza della popolazione (solo il 40,1% dei 16.464.500 abitanti nel 1989). Oltre ai russi, vi era (ed in buona misura permane) un caleidoscopio di oltre cento etnie – quali tedeschi, tatari, coreani ebrei, armeni, etc. – accomunato alla maggior parte dei kazaki dall’uso della lingua e della cultura russa (nelle varianti sovietiche). Al pari della Russia, tale eterogenea società è stata scossa dalle «riforme» liberali degli anni 90.

Uno degli effetti di queste ultime è stata un’emorragia migratoria di quasi tre milioni di persone fra il 1989 e il 2001, fra le più avanzate dal punto di vista culturale ed economico.

Alle fratture etniche vanno aggiunte quelle legate alle articolazioni tribali, su cui poggia storicamente la società kazaka, le quali divennero più rilevanti con le politiche di «nazionalizzazione» identitaria messe in campo dal potere. Soprattutto negli anni in cui la Russia di Yeltsin sembrava destinata a fare la fine dell’Urss, il regime del Presidente Nazarbayev attuò ufficiosamente una politica etno-nazionalista, volta ad aumentare il peso specifico dell’etnia «maggioritaria», anche in considerazione dello squilibrio interno che vedeva i russi e le altre minoranze «europee» predominanti nelle regioni settentrionali (da cui anche la decisione di trasferire la capitale da Almaty ad Astana nel 1997).

Tale politica comportò il rimpatrio della diaspora kazaka all’estero (i cosiddetti oralmani), ufficialmente per compensare le perdite demografiche dell’emigrazione slava e tedesca. In tal modo, oltre a legittimarsi in senso nazionalista, il regime distoglieva l’attenzione dalla sperequazione sociale creata dal nuovo corso di politica economica, caratterizzata da un’elevata polarizzazione sociale, con enormi ricchezze accumulate al vertice ed un 10% alla base della piramide sociale in lotta per la sopravvivenza.

Oltre alle descritte sperequazioni verticali, le disuguaglianze si consolidarono anche su base regionale. Nell’Ovest, base delle ricchezze energetiche, il reddito medio è tre volte più elevato che nel meridione rurale, dove è più elevata la percentuale di poveri ed il degrado delle infrastrutture di base.

Tali cambiamenti hanno minato la fragile struttura geopolitica del paese creando tensioni sociali rimaste a covare negli anni. L’apatia politica è divenuta una caratteristica dominante della società kazakistana (termine che ricomprende l’insieme dei cittadini al di là del fatto etnico).

Unendo alla debolezza della società civile quella delle istituzioni politiche e del welfare, il tutto ha determinato un vuoto in cui sono cresciuti sia l’etno-nazionalismo che il radicalismo islamista. Nelle vaste e degradate periferie del paese, i gruppi salafisti hanno rappresentato una prospettiva di riscatto per gli esclusi e la gioventù rispondendo ad una profonda e diffusa domanda di giustizia sociale. Le reti islamiste sono cresciute costantemente, infiltrandosi in profondità nelle periferie più remote e nelle prigioni, dove hanno trovato un ambiente adatto alla loro riproduzione e diffusione, anche interconnettendosi con il mondo criminale.

Il fenomeno è stato a lungo disconosciuto dalla leadership, anche perché in contraddizione con l’euforica narrativa ufficiale della stabilità e del successo del «modello kazakistano» celebrato dai partner occidentali. Inoltre, il precedente regime è stato direttamente implicato nella diffusione dell’islamismo, considerato quale elemento di consolidamento della sua dubbia legittimità e dell’identità nazionale.

Fatto ancor più preoccupante, esponenti della cerchia ristretta di Nazarbaev, quale il nipote Kairat Satybaldy, a lungo a capo del Comitato di sicurezza Nazionale, si sono segnalati quali leader informali di gruppi radicali religiosi, contigui ad unità paramilitari ben strutturate nelle regioni meridionali della repubblica secondo linee tribali. Da oltre un decennio, tali assodate ambiguità permettono di parlare di strategie della tensione, attivabili nel quadro della lotta per il potere fra i vari gruppi oligarchici, interessati a diffondere il terrore fra la popolazione.

È facile capire come questa sia la principale sfida che le autorità oggi affrontano: scenari dove la lotta fra fazioni per l’egemonia, con le sue ipoteche nazionaliste e religiose, si saldi con le spinte regionaliste dei clan locali.

Di male in peggio, prospettive di «rivoluzioni colorate», alimentate da piccoli ma organizzati gruppi urbani formatisi in Occidente, creerebbero gli esiti più imprevedibili.

Non va inoltre dimenticata l’angoscia con cui i russi e le altre minoranze etniche (da sempre elettori di Nazarbaev percepito come figura di garanzia) vivono l’attuale caos in cui potrebbero facilmente divenire i bersagli di detta strategia della tensione.