L’assemblea tenuta sabato scorso a Roma, dall’Altra Europa con Tsipras può costituire un buon punto di osservazione per riflettere sullo stato della sinistra, oggi, in Italia. Dico della sinistra, senza aggettivo – non della “sinistra radicale” o “alternativa”, ma della sinistra tout court -, perché dopo la mutazione genetica in senso renziano del Pd è difficile immaginare che di lì possano provenire segnali di vita in questa direzione. O ripartire un discorso.

E’ dunque dal milione centotremila duecento e tre elettori che hanno scelto quell’unica alternativa che la scheda offriva il 25 maggio che bisogna ripartire. Dalla loro articolata composizione. Dall’anomalo assemblaggio di forme e di culture politiche che li ha messi insieme. Sapendo che sono indubbiamente pochi – pochissimi – in rapporto a quella che sarebbe oggi la necessità di alternativa e la domanda quasi disperata di rappresentanza (ha perfettamente ragione Asor Rosa su questo). Che sono enormemente sottodimensionati anche rispetto alle dimensioni di buona parte delle formazioni politiche europee a sinistra della socialdemocrazia, comprese quasi tutte in una fascia tra il 10 e il 20%, con la punta del 26% di Syriza in Grecia. E tuttavia che sono il piccolo esercito che ha permesso la riemersione di ciò che resta della sinistra dopo anni di apnea (di “naufragi”): il piccolo miracolo che ha evitato il “paradosso” (così l’ha definito Alexis Tsipras) dell’assenza di una sinistra italiana dal Parlamento europeo per la seconda volta consecutiva.

Di questo c’era consapevolezza, nel clima non trionfalistico, pacatamente riflessivo, del teatro Vittoria a Roma. Consapevolezza del carattere composito, in primo luogo, di quell’affermazione, frutto di molti contributi e confluenze: della mobilitazione dal basso di una rete indipendente di associazionismo e di cittadinanza, di un voto d’opinione di settori disorganizzati di società ma non per questo arresi soprattutto sul terreno della difesa della democrazia, del contributo dei militanti di ciò che resta dei partiti, Prc, Sel, Azione civile… Nessuno decisivo in realtà, perché tutti indispensabili (l’assenza di uno solo di questi segmenti avrebbe condannato la lista al naufragio).

E, d’altra parte, consapevolezza della problematicità del passaggio dall’esperienza della campagna europea – segnata per molti aspetti da una sorta di “stato di necessità”, che ne ha imposto una gestione un po’ anarchica e un po’ controllata “dall’alto” dall’istituto anomalo dei “garanti” -, a quella di una possibile presenza nella competizione politica nazionale.

Non per infilarsi nell’imbuto stretto della discussione sulle regionali incombenti, come i resoconti giornalistici un po’ riduttivamente hanno sintetizzato, quanto per misurare compiti, obiettivi, forme nel contesto nuovo offerto dal quadro politico italiano dopo il voto, lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova. In particolare confrontandosi con la sua dirompente discontinuità, anche rispetto al contesto in cui si è svolta la campagna elettorale.

Quel 40,8% ottenuto da Renzi. Da Renzi, non dal Pd. Per certi versi da Renzi “contro” il Pd. Quel risultato “costituente”, ha mutato sia la natura del Pd (non più partito in senso proprio, ma appendice del capo, uomo solo al comando). Sia la natura del nostro sistema politico, non più pluralistico ma tendenzialmente e vocazionalmente monocratico. In cui le istanze di mediazione tra società e stato – la società di mezzo delle forme di rappresentanza politica e sociale – vengono piegate alla verticalità del comando dall’alto, dal vertice del Governo e della persona del suo Capo, secondo la più pericolosa delle forme del populismo: il populismo istituzionale.

E’ questo l’orizzonte entro il quale si è avviata la discussione il 19 luglio al Vittoria: in cui la vecchia geografia – centrodestra, centrosinistra, alleanze, destre e sinistre interne ai diversi partiti – appare travolta e inattuale. E si pone, drammatico il problema di come riorganizzare una rappresentanza capace di resistere a questo vortice omologante, subalterno alle logiche di comando europeo ma proprio per questo aggressivamente invadente e intollerante sul piano interno.