Le elezioni regionali non hanno portato buone nuove a sinistra. La sconfitta è stata netta dove ci si è presentati in alternativa, ma non ha visto risultati positivi neppure nelle coalizioni riconducibili all’area di governo. Il dibattito ha poi riproposto la centralità del nodo delle alleanze – “mai con il PD”, “sempre con il PD” – come fondamento di un progetto di costruzione a sinistra.

Non ci sembra un’impostazione convincente.

La prima opzione non fa i conti con i mutamenti intervenuti rispetto alla fase precedente, quella aperta dallo shock austeritario del governo Monti. Rispetto ad essa, più elementi hanno modificato il quadro: la crescita della destra estrema, la fuoriuscita di Renzi dal PD, le modifiche intervenute a livello europeo. Queste ultime esito non solo della pandemia, ma della crisi, antecedente, della globalizzazione neoliberista. Tutti elementi che hanno concorso a rafforzare il governo e il PD, portando alla bipolarizzazione del voto.

Ma cogliere questo è altra cosa dal teorizzare il “sempre con il PD” e l’internità al quadro dato. Anzitutto per i limiti del governo che, assieme ai molti interventi necessari nella pandemia, non pare capace della indispensabile discontinuità d’impianto. Per le contraddizioni delle principali forze che lo sostengono: il PD, contenitore delle sedimentazioni accumulatesi negli anni (da chi ha un qualche pensiero critico sul neoliberismo, a chi al neoliberismo resta organico), e i 5 Stelle in una transizione indefinita.

Ma anche per i sommovimenti nella società, dove Confindustria si pone come riferimento di un insieme di interessi, per determinare l’allocazione dei fondi europei e liquidare i residui diritti del lavoro. Se la pandemia squaderna la necessità di un diverso modello sociale, il rischio evidente è una regressione. In questo contesto una sinistra autonoma resta quanto mai necessaria.

D’altra parte, la stessa discussione sulla legge elettorale rafforza tale urgenza. Le alte soglie di sbarramento vanno contrastate, ma l’impianto proporzionale pone al centro della politica la domanda “chi rappresenti, per fare cosa” piuttosto che “con chi ti allei”. Nella crisi conclamata del neoliberismo la sinistra può svolgere un ruolo solo basandosi sulle ragioni costitutive della propria autonomia, e nella propria autonomia – che non è autismo – scegliere se e con chi allearsi.

Proponiamo quattro terreni di ricerca, un impegno da assumere.

1. La democrazia. Il maggioritario è stato concausa della crisi della sinistra. Ha drammatizzato il nodo delle alleanze, su cui si sono consumate quasi tutte le divisioni, ha posto in secondo piano la rappresentanza della società. Non ci si è divisi solo tra organizzazioni, ci si è separati dal proprio corpo sociale. Se il nodo della legge elettorale resta molto importante, lo è altrettanto sperimentare modalità della discussione e della decisione, che consentano non solo di stare assieme senza drammatizzare le diversità, ma di ricucire la frattura tra società e politica. Un processo deliberativo che, sulle priorità dell’iniziativa o sulla scelta delle alleanze, promuova un dibattito ampio e culmini nella consultazione di chi è parte di un progetto, è tema che non si può rimuovere.

2. Studiare e immaginare. Non basta stilare programmi: è urgente ricomporre saperi sull’analisi del presente, e portare la sfida sul terreno del senso comune. Le idee di felicità e libertà su cui il neoliberismo ha basato la sua egemonia – l’individualismo proprietario, la libertà nel consumo – sono irrealizzabili per un numero crescente di persone. In assenza di un’alternativa di senso, prendono forma “i fenomeni morbosi più svariati”. E’ in questa crisi che va elaborata una diversa prospettiva di libertà e felicità.

3. Lottare e praticare. La costruzione di conflitto e di pratiche solidali, per riportare la sinistra dove dovrebbe stare, è spesso un’evocazione, anche per la polverizzazione delle forze. “L’unione fa la forza” non è uno slogan, è una necessità.

4. Il corpo delle organizzazioni esistenti, con rare eccezioni, è bianco, anziano, maschio. Non intercetta il lavoro migrante né le seconde e terze generazioni, non accoglie il protagonismo delle ragazze e dei ragazzi (semmai declina il tema generazionale come rottamazione “biologica”, da destra), è non solo ossificato nei riti del micropotere maschile, ma persino, temiamo, nella perdurante fascinazione della hybris del guerriero, mentre è squadernata di fronte a noi la vulnerabilità della condizione umana.

Forse di questo e altro si potrebbe discutere, prendendosi un impegno ovunque collocati: lavorare nello scontro aperto, per una ricomposizione delle forze rispetto alla destinazione delle risorse di Next Generation EU. L’efficacia è condizione imprescindibile per la buona politica.