Libera e indomabile come il suo cavallo, che incede sotto la sua guida di amazzone del cinema arabo. Ma anche limitata da un piccolo recinto di ostacoli, malversazioni, dall’ottusità di un tessuto sociale non ancora pronto alla sua intraprendenza visionaria, come quello in cui si ritrova talvolta oppresso l’animale.
Sono le sequenze che introducono Saafa Dabour, fondatrice nel 2003 della prima e unica cinemateca in Israele, sorta nell’edificio dove, nel ’62, Frank Sinatra aveva fatto costruire un centro giovanile arabo-ebraico.
Una grande sala con poltroncine di velluto azzurro, bobine su bobine, e il fascino della pellicola tra le spirali della proiezione analogica, mentre la luce che si irradia fino allo schermo, crea effetti magici sul volto rotondo e circondato dal velo di Saafa. Siamo nell’atmosfera calda, propulsiva ma anche dolente di Nazareth Cinema Lady, il documentario dell’israeliana Nurit Jacobs–Yinon, che rappresenterà uno dei poli pulsanti al Middle East Now, il Festival di cinema e cultura contemporanea sul Medio oriente, diretto da Lisa Chiari e Roberto Ruta (Dal 4 al 9 aprile sarà al Cinema La Compagnia e al Cinema Stensen a Firenze).
Dunque Saafa Dabour, la signora del cinema arabo nella cittadina dell’Annunciazione a Maria e dell’infanzia di Cristo. Quello imbastito con lei da Jacobs-Yinon è un ritratto cangiante, attento e mai consolatorio, ad accogliere le diverse dimensioni della vita di questa pioniera fiammeggiante: dalla passione assoluta per la cinemateca, per cui ha venduto casa e auto, alla capacità direttiva di curarne amorevolmente tutti gli aspetti (contatti coi distributori, viaggi anche solo di un’ora in Giordania pur di avere una pellicola, cura di festival, fino allo staccare i biglietti e fare i conti col budget); il tutto a permeare la dimensione più privata: coi figli ventenni, suoi collaboratori, incerti tra orgoglio e conflitto verso una madre contro, al cimitero – dove ricorda un marito imposto – solo senza di lui ha potuto essere libera, in cucina, o mentre prega rivolta alla Mecca e rifiuta gli alcolici ai ragazzi del quartiere, che ha voluto salvare col suo cinema.
Cosa accadrebbe allora se, in questo documentario che dialoga a distanza con la resistenza magnifica di Annabella Miscuglio e del suo Filmstudio a Roma, trasposta ne L’età d’oro di Emanuela Piovano (2015), Saafa dovesse ritrovarsi a fronteggiare un’atroce onda contraria, violenze e intimidazioni dai politici del luogo, da chi non ha mai accettato di avere una donna come lei alla guida dell’immaginario?