Dopo aver annunciato il suo ritiro dal cinema, sei anni fa («i film non contano più»), ed essersi buttato sulla Tv (The Knick e, come produttore, Red Oaks e The Girlfriend Experience) Steven Soderbergh ha deciso di dare un’altra chance al suo medium originale, cercando di sovvertirne le regole, in una chiave «fai da te» forse mai osata dai tempi del sogno coppoliano della Zoetrope; un sogno duramente massacrato da Hollywood all’inizio degli anni ottanta.

OGGI le tecnologie sono molto più leggere e le vie per uscire dai percorsi finanziari (e quindi estetici) obbligati dell’industria più vari di quando Francis Coppola stabilì il suo centro creativo agli Hollywood General Studios, per realizzare il suo magnifico Titanic, Un sogno lungo un giorno.
In La truffa dei Logan (2017), Soderbergh si era fatto carico lui stesso della distribuzione del film, lavorando su circuiti alternativi e tagliando così fuori costi e scelte creative relativi alla pubblicità e al marketing. Piuttosto gelida la risposta del pubblico e ancora più quella dell’industria. Ma non si era dato per vinto. È stato infatti auto distribuito (con più successo) anche il suo lavoro successivo, l’horror Unsane, che il regista – quasi sempre anche operatore e montatore – aveva girato con un iPhone, riducendo ulteriormente l’infrastruttura che circonda la fattura di un film.

Anche High Flying Bird è girato con un telefonino (generazione successiva, 8), su sceneggiatura di Tarell Alvin McCraney (Moonlight) per un agile budget di due milioni di dollari. Lo si trova sulla piattaforma Netflix (dopo una prima, in gennaio, allo Slamdance Film Festival), e la compagnia di Ted Sarandos viene citata persino in una scena del film, che non a caso è proprio una storia di come certi sistemi di controllo economico, sociale e artistico possono essere sovvertiti. Solo che qui, invece di cinema, si parla di sport, la pallacanestro.

Ironicamente, nel 2009, Soderbergh avrebbe dovuto dirigere L’arte di vincere, l’adattamento del libro di Michael Lewis sul tentativo di mettere insieme una squadra vincente per la World Series di baseball utilizzando un algoritmo per scavalcare le regole degli acquisti a prezzo d’oro – ma lo studio non si fidò della sua visione, giudicata troppo avanguardistica per un budget da oltre cinquanta milioni di dollari, con Brad Pitt (Bennett Miller finì alla regia). In questo contesto Ray Burke (André Holland, già in Selma – La strada per la libertà e Moonlight), il protagonista di High Flying Bird, è un eroe soderberghiano stupendamente emblematico.

Star in una potente agenzia del business, Ray si è appena assicurato il giovane giocatore di basket più ambito dell’anno, Erik Scott, reclutato a peso d’oro dai New York Knicks direttamente dal campionato universitario. Ma l’empasse di una trattativa tra i proprietari delle Major Leagues e la Players Association, l’associazione per i giocatori, congela la stagione e mette in seria difficoltà economica Erik e i giovani che come lui arrivano dai college tournaments e quindi non erano pagati, nonostante fruttassero milioni di dollari in pubblicità tv alle rispettive università.

QUANDO RAY si rende conto che i padroni delle squadre (tra cui un malevolissimo Kyle McLachlan) stanno rallentando di proposito la trattativa per mettere la Players Association con le spalle al muro, trova un modo di spaventarli che include l’idea di apparizioni speciali (degli atleti) nelle scuole e l’uso di YouTube. Attrezzato il telefonico di un obbiettivo anamorfico, Soderbergh (alias Peter Andrews nel credit per la fotografia; mentre è Mary Ann Bernard in quello per il montaggio) trasforma gli interni delle agenzie e le strade newyorkesi che li circondano in patinate prigioni di vetro e acciaio -il look distorto dal grandangolo aumenta la sensazione kafkiana di claustrofobia -l’oppressione evocata dagli spazi una metafora non solo di quella economica ma anche di razza e di classe.