Chiusi in casa, dalle finestre o dal balcone, non vediamo altro che angoli particolari di città. Palazzi e monumenti, strade, piazze e parchi dall’aspetto spettrale. Asfalti lucidi, non più calpestati da anima viva. Se vogliamo essere responsabili, possiamo solo descriverli, fotografarli o filmarli, da lassù, dall’altezza che ci sembra rassicurante delle nostre finestre.

Albert, il guardiano di notte della torre Eiffel in Paris qui dort (diretto da René Clair, uscito nel1925, girato nel 1923) invece svegliandosi una mattina nel suo alloggio in cima alla torre, non solo può vedere (quasi) tutta la città e accorgersi che è deserta, ma può anche scendere di sotto, percorrendo le scale a chiocciola del grande manufatto, e inoltrarsi per una Parigi resa quasi irriconoscibile. Niente traffico, non un’anima in giro. Sembra quasi che egli sia rimasto l’ultimo uomo al mondo, come sarà molti anni dopo per Vincent Price in giro per l’Eur nel film di Ragona e Salkow (L’ultimo uomo della terra – 1964).

Ma l’impressione è falsa: dopo aver traversato strade e piazze deserte, parchi i cui soli abitanti viventi sembrano gli alberi, e monumenti famosi come Notre-Dame, che troneggia isolata in inquadrature da incubo, Albert infine si imbatte in alcune persone – solo che queste persone sono come addormentate o paralizzate, i loro gesti fermati all’improvviso, a mezz’aria, in pose casuali e grottesche. C’è un tizio paralizzato al volante d’una macchina, un altro addormentato seduto su una panchina. Un tale sembra stia per suicidarsi, buttandosi nella Senna: Albert si precipita in suo soccorso, ma deve constatare che anche costui è rimasto paralizzato nell’atto di tuffarsi. Una guardia e il ladro che inseguiva sono rimasti parimenti bloccati.

È stata l’altezza a salvare Albert, a far sì che sia sfuggito alla paralisi universale che ha colpito la città. Ma non è il solo: un aereo atterra all’aeroporto di Parigi, e i suoi passeggeri (quattro uomini e una donna) si trovano nella stessa situazione di Albert, soli esseri dotati di liberi movimenti nella città paralizzata – anche loro risparmiati dal privilegio dell’altezza, dalla fortuna d’essere stati in volo.

Parigi è irriconoscibile, popolata di spettri, come le nostre città oggi. Ma che significa «irriconoscibile»? In realtà, riconosciamo la Torre Eiffel, Notre-Dame, les Champs Elysèes, l’arco di Trionfo, place de la Concorde ecc. – li riconosciamo, come li riconosce Albert, come li riconoscono i cinque aviatori, e al tempo stesso non li riconosciamo: sono sempre fatti di pietra, ferro e mattoni, ma questi materiali concreti assumono (in)consistenza spettrale – edifici che diventano i fantasmi di se stessi, perduti, come svaniti, o sul punto di svanire.
Le città, le architetture, hanno un’anima, ossia esistono come realtà solo in quanto esistono anime (umane) che le abitano. Il mondo stesso scompare, se scompare la sua percezione da parte degli umani.

Albert e gli altri cinque, a differenza della nostra situazione odierna, sono dunque liberi di muoversi in un mondo paralizzato, ma questo non impedisce loro, alla lunga, di annoiarsi e litigare. Manca l’ossigeno della socialità, visto che non si possono avere scambi, né corporei, né intellettuali, con figure viventi che non reagiscono e ben poco le distingue da sagome di cartone.

Nel film, la causa di tutto non è un virus – è l’invenzione d’un raggio paralizzante da parte del classico scienziato pazzo. Per mettere fine ai suoi nefasti effetti, basta manovrare una leva, in un laboratorio pieno di macchinari che sembrano giocattoli. La leva, spostata, restituisce la mobilità, cioè la vita, agli abitanti di Parigi.

Tornano ad affollarsi le strade, tornano gli ingorghi di traffico, torna il caos – ma il caos, stavolta, è il benvenuto: il caos mobile della vita, contro il caos paralizzante della morte.
Bastasse spostare una leva!