Un’ora prima che la Corte Costituzionale demolisse la legge elettorale facendo quello che tutti i partiti (anche gli autori del misfatto) dicono di voler fare da sette anni, una commissione di senatori giurava di aver trovato la strada per cambiare finalmente il Porcellum. O almeno fare una proposta. Subito, quasi subito, in due mesi al massimo. A tale livello di grottesco era arrivata la politica, foresta pietrificata sulla quale si è abbattuta l’ennesima supplenza giudiziaria. Ancora una volta obbligata e stavolta benvenuta. La Consulta, che non a caso è rimasta sotto attacco per tutto il ventennio berlusconiano assieme agli altri poteri di garanzia, ha rimesso la chiesa al centro del villaggio. La rappresentanza nel cuore del sistema elettorale. I cittadini elettori alla base della legittimazione dei rappresentanti. Non è detto che basterà per avere un buon sistema elettorale. Ma potrà solo essere migliore.

La Corte Costituzionale, evitando ogni tentazione di rinvio, ha dichiarato l’illegittimità del premio di maggioranza senza limiti, quello che dal 2005 consente a chiunque vinca le elezioni, anche solo di un voto e con qualsiasi percentuale, di conquistare 340 deputati, la maggioranza assoluta. Anche la legge Acerbo approvata durante il fascismo prevedeva una soglia minima di voti per aver diritto al premio. Ma la Corte è andata oltre accogliendo anche la seconda questione di costituzionalità che gli era arrivata dalla Cassazione e bocciando il meccanismo delle liste bloccate. L’ispirazione è la stessa: restituire ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti. Bisognerà leggere le motivazioni che arriveranno tra qualche settimana, ma il principio sembra quello già anticipato in precedenti (ma non cogenti) pronunce della Consulta: la rappresentatività può essere sacrificata alla governabilità solo nel rispetto della ragionevolezza. Nel caso del Porcellum il sacrificio è (era) enorme e il vantaggio nullo, come prova il fatto che i vincitori per governare si sono dovuti alleare con gli sconfitti nel governo delle larghe intese.

Quella di ieri è una sentenza certamente politica, quasi costituente o meglio «ri-costituente» visto che mette in crisi il totem del premio di maggioranza attorno al quale ha ballato tutta la «seconda Repubblica». Lo si capisce benissimo non solo dalle conseguenze, ma anche dalle parole condiscendenti che i giudici hanno voluto rivolgere ai politici. «Resta fermo – si legge in conclusione del comunicato all’esito della camera di consiglio – che il parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali». Una precisazione, quasi una scusa, non richiesta e che però dà il senso della consapevolezza dei giudici costituzionali di addentrarsi in un terreno delicato. Del resto non erano poche le pressioni perché le questioni fossero semplicemente dichiarate non accoglibili, e neppure i precedenti. Invece dopo sei anni durante i quali si sono trovati contro in tribunale tre diversi governi (non quello in carica, non a caso) hanno avuto ragione l’avvocato Bozzi e quei 27 cittadini milanesi che hanno combattuto il Porcellum con le armi del diritto. Ma se la Consulta non avesse ammesso le questioni di costituzionalità accolte e rilanciate dalla Cassazione avrebbe finito col mettere al riparo ogni legge elettorale, anche la peggiore (e la legge Calderoli è la peggiore), dalla verifica di legittimità.

In attesa delle motivazioni, la legge elettorale che viene fuori dalla sentenza di ieri è un proporzionale puro come ai tempi della Costituente (e allora sì che un parlamento eletto con questo sistema avrebbe una legittimazione in più per fare le riforme). È il sistema più in grado di garantire la rappresentatività delle forze politiche, ma anche quello che nel quadro politico attuale aprirebbe le porte alla stabilizzazione delle larghe intese. E al tramonto di quel bipolarismo che appare esaurito nei fatti e solo a fatica può essere creato in vitro dalle leggi elettorali.

Vent’anni dopo può forse chiudersi il ciclo dominato dalla religione del maggioritario. Ed è significativo che le parole di rispetto per il parlamento usate ieri dalla Consulta siano le stesse che erano contenute nelle sentenza che nel 1993 ammise il referendum sul sistema di voto del senato, aprendo la porta al Mattarellum e alla riforma istituzionale per via elettorale. Anche allora, come ieri, si volle riconoscere alle camere l’ovvio diritto di scrivere una nuova legge elettorale.
Ma il parlamento di oggi si è messo fuori gioco da solo. E potremmo persino assistere allo spettacolo dei deputati che corrono a farsi convalidare la nomina prima che arrivino le motivazioni della sentenza di ieri. Una preoccupazione scomposta e probabilmente superflua, ma il giusto compendio di un’istituzione mortificata.