La Berlinale che sta per cominciare (20 febbraio- 1 marzo) festeggerà i settant’anni, e il debutto alla direzione di Carlo Chatrian, tra non pochi ostacoli. A livello locale la chiusura delle sale (Cinestar) nel Sony Center che ha obbligato a spostare numerose proiezioni per gli addetti ai lavori in altri cinema. A questo si aggiunge la chiusura per ristrutturazione della fermata su Potsdamer Platz, cuore del festival, della linea U2, snodo centrale e passaggio obbligato verso diverse delle nuove sale, e quella, sempre per lavori di ammodernamento, del mini centro commerciale sulla piazza, luogo di conforto e di ristoro con un pasto veloce o un caffé per i festivalieri.

Ma soprattutto a livello globale c’è la catastrofe del coronavirus che ha bloccato i mercati asiatici – anche cinematografici – da tempo ormai interlocutori privilegiati nel business berlinese – con la chiusura delle sale e il blocco delle produzioni in Cina. Per non dire della paranoia del contagio che ha obbligato il festival a rassicurare gli accreditati sulle misure di controllo e prevenzione messe in atto.

C’è molto cinema italiano quest’anno, due titoli nella competizione internazionale, Favolacce dei fratelli D’Innocenzo e Volevo nascondermi di Giorgio Diritti,  poi Zeus Machine. L’invincibile di Zapruder e La casa dell’amore di Luca Ferri al Forum, Semina il vento di Danilo Caputo in Panorama, Palazzo di Giustizia di Chiara Bellosi in Generation. Ci sono poi alcuni nomi che fanno parte della storia recente della Berlinale come Hong Sangsoo (The Woman Who Ran) o Christian Petzold (Undine), e altri registi di punta nel cinema d’autore mondiale quali Tsai Ming Liang (Days), Philippe Garrel (Le sal des larmes), Rithy Pahn (Irradiés), o Abel Ferrara con Siberia – che è una coproduzione italiana. La prima impressione è quella di una scelta che porta con sé l’esperienza maturata da Chatrian – e dalla sua equipe – negli anni della direzione del festival di Locarno, con una bussola verso un modello cinematografico che trova come è naturale nel palcoscenico berlinese la sua attuazione attraverso opere di respiro più grande – per dirla in modo semplice sono quei film che non andrebbero a Locarno ma a Venezia.

Più alcune «stranezze» un po’ hipster tipo DAU. Natasha di Ilya Khrzhanovskiy legato alla perfomance messa in scena a Parigi lo scorso anno di dichiarata provocatorierà. Quello che manca però sono titoli un po’ più spettacolari, è evidente la debolezza della selezione americana non per qualità ma appunto per statuto produttivo – e comunque First Cow di Kelly Reichardt è un film che arriva dal New York Film Festival 2019. Niente Hollywood, insomma, e meno divi ma forse era questo il mandato? Col tempo si vedrà.