Ferguson è di nuovo in fiamme. Il verdetto del Grand Jury è arrivato: Darren Wilson, il poliziotto che uccise nell’agosto scorso il giovane africano-americano Michael Brown durante uno dei soliti controlli vessatori a cui vengono sottoposti ogni giorno migliaia di neri nelle città degli States, non sarà incriminato. Dai presidi e dalle mobilitazioni delle settimane scorse si è passati di nuovo alla rivolta; sintomo che buona parte della popolazione, e non solo di Ferguson, aveva già espresso la sua sentenza: omicidio, esecuzione, e non altro.
Quanto accaduto a Ferguson però non deve essere interpretato come un semplice episodio di violenza poliziesca che chiede giustizia, e nemmeno come un qualcosa di tipico soltanto della società americana, della sua storia particolare, della sua particolare struttura di classe. Le violenze razziste (istituzionali e non) che subiscono i neri di Ferguson, così come la realtà urbana profondamente segregata di questo sobborgo periferico di St. Louis, rimodellato negli ultimi anni dai processi di gentrificazione e di «accumulazione per spoliazione» di un capitalismo divenuto sempre più estrattivo, pur nella loro specificità americana, non appaiono poi così tanto diverse dalle logiche di comando del capitale ad altre latitudini.

Sono due delle conclusioni che si possono ricavare (sin dal titolo) da Razza di classe, un e-book uscito recentemente settimana fa a cura del collettivo Commonware. Si tratta di una raccolta di articoli e interviste in cui attivisti e intellettuali americani riescono a collocare in modo efficace i fatti di Ferguson entro una «genealogia lunga», sia in senso temporale (nella specificità della storia degli Usa), sia in senso spaziale (nei mutamenti del modo di accumulazione del capitale globale).

Macchina penale

La raccolta presenta alcune tesi comuni a tutti gli interventi. Le violenze quotidiane della polizia nei confronti dei giovani neri, messe in pratica attraverso la tecnica dello «stop and frisk» (fermo e perquisizione), vengono qui interpretate come un aspetto essenziale di una «guerra di classe» di bassa intensità condotta dallo stato contro quei gruppi e soggetti sociali divenuti mera «eccedenza», ovvero come uno degli strumenti di controllo sociale su quella parte del proletariato nero espulsa dal mondo lavoro e dalla sfera della società civile dopo il processo di ristrutturazione neoliberista. La violenza poliziesca viene a configurarsi qui, nella sua funzione minatoria, come una sorta di prosecuzione postfordista dei linciaggi, per ricordare la nota tesi di Angela Davis.

Tuttavia, la polizia viene vista soltanto come l’avamposto, insieme alle «scuole ghetto» e alle prigioni, di una «macchina penale repressiva» più estesa che, nella sua dialettica di controllo, oscillante tra abbandono (come nel caso dell’uragano Katrina) e incarcerazione di massa, deve essere interpretata come la risposta politica dello stato americano all’abolizione della schiavitù, al movimento dei diritti civili e del black power, ovvero alla minaccia posta dal lavoro nero libero e dalla mobilità del lavoro nero alla struttura di classe tradizionale della società americana, plasmata sul discorso coloniale della whiteness. Michael Brown, come tanti altri giovani neri e latinos, è stato inghiottito non da un poliziotto, ma dagli ingranaggi criminali della macchina americana della supremazia bianca.

Il testo dunque appare omogeno nel sollecitarci a pensare il razzismo come un vero e proprio «sistema», come un dispositivo centrale della stessa composizione di classe del capitalismo americano; e in quanto tale, ci viene precisato nell’introduzione, come un fenomeno che non riguarda unicamente gli apparati repressivi dello stato, ma la società intera: dalla scuola alle università, dal lavoro ai media, dallo spazio urbano al sistema penale. Ferguson non fa che mostrare la natura ideologica dell’ordine discorsivo dominante sul presunto divenire post-razziale degli Stati Uniti di Obama. Razza e razzismo sono strutture materiali, non solo simboliche.

È così che Razza di classe propone alcune considerazioni sulla natura del razzismo su cui occorre soffermarsi, se pensiamo alla povertà (ma anche a quello che possiamo chiamare in termini sartriani una sorta di «malafede collettiva») del dibattito italiano su questo argomento. Dal testo si evince con chiarezza quanto sia politicamente fuorviante considerare la violenza razzista come il prodotto di un «pregiudizio», di una «mancanza» o di un «deficit di cultura», per così dire, di cui sarebbero attraversati i (soli) soggetti razzisti (diversamente al resto della società illuminata). La forza delle interpellazioni razziste non sta nel pregiudizio, con buona pace del sociologo francese Pierre-André Taguieff. Ugualmente fuorvianti appaiono qui altri discorsi «progressisti» che ritornano ogni volta sulla scena pubblica italiana come i giusti corollari interpretativi di nuove aggressioni o violenze razziste: contrariamente a quanto pensano liberali e sinistra istituzionale, il razzismo non è un fenomeno che viene soltanto dall’alto, non è quindi legato soltanto alle istituzioni (alle forze dell’ordine, al meschino tornaconto dei politici di professione o alle politiche di controllo del lavoro o delle migrazioni), e non è nemmeno un fenomeno che emerge soprattutto nelle situazioni di povertà o di degrado, o in quartieri periferici disagiati o non belli dal punto di vista architettonico (come suggeriscono, per esempio, alcuni interventi di questi giorni a proposito dei fatti di Tor Sapienza a Roma).

Razza di classe ci induce invece a pensare il razzismo come un dispositivo di comando costitutivo del capitalismo moderno e delle sue modalità coloniali, sovrane e necropolitiche (e non solo biopolitiche) di amministrazione, controllo e produzione di territori, culture, saperi e popolazioni. Interessante appare qui la definizione di Ruth W. Gilmore riportata nel testo, secondo cui «il razzismo è la produzione e lo sfruttamento, legittimati in qualche modo dallo stato, di diversi gradi di “vulnerabilità a morte prematura” tra i diversi gruppi sociali, nell’ambito di geografie politiche distinte ma tuttavia densamente interconnesse».

Colonialismo globale

Il razzismo, dunque, non può essere considerato come un mero effetto secondario di altri processi: si tratta di un fenomeno che attraversa tanto la struttura di classe quanto l’ordinamento simbolico delle società statal-nazionali moderne, e cha ha avuto il suo «grado zero» nello sviluppo del colonialismo e della schiavitù, ovvero nella «colonialità» del potere capitalistico globale moderno. In quanto essenziale dispositivo moderno di gerarchizzazione (materiale e simbolica) della cittadinanza riguarda la produzione e gestione della società nel suo complesso. Ad essere razzializzati non sono solo gli «altri».

Quest’ultimo è un indispensabile punto di partenza per la costruzione di una pratica teorica e politica antirazzista davvero radicale. Anche perché le società europee non possono certo dirsi lontane da Ferguson: solo che qui la supremazia bianca si è storicamente iscritta nello stesso significante Europa durante l’espansione coloniale, mentre la funzione storica dei linciaggi viene affidata oggi non solo alla gestione poliziesca delle zone ad alta densità di popolazioni postcoloniali, ma anche alla violenza di Cie, Cara, Frontex, Triton e altri elementi delle politiche migratorie. Forse la macchina penale razzista europea andrebbe pensata come una risposta politica alla mobilità del lavoro migrante a partire dalla decolonizzazione in poi. Non è un caso che a porre la questione della razza e del razzismo sullo stesso territorio europeo siano state le lotte e le insurrezioni di gruppi e soggetti provenienti dalle ex-colonie.

Il testo sarà pubblicato nel sito www.commonware.org