A breve, per l’esattezza dal 2 luglio, comincerà, a Pesaro, la 52a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Tra le sezioni della manifestazione c’è Super8, dedicata, proprio nei 50 anni della sua invenzione, al formato ridotto più popolare, mezzo d’espressione di esperienze cinematografiche libere, indipendenti, sperimentali e, ovviamente, amatoriali; queste ultime da intendersi secondo l’accezione che Stan Brakhage dava al termine, ovvero nel senso di vicinanza empatica ai soggetti ripresi. Protagonisti della sezione, chiamati a introdurre e commentare in diretta le loro opere, saranno John Porter e Giuseppe Baresi.

Baresi, docente e filmmaker spesso al confine tra documentario e videoarte, in questi giorni sta proponendo a Milano, negli spazi di Studio Azzurro all’interno della Fabbrica del Vapore di via Procaccini, un’installazione inedita, che è possibile visitare (tutti i giorni dalle 15 alle 19) fino a domenica 19 giugno, intitolata Titania la pellicola della pellicola della pellicola.

Per la sua messa in opera il regista ha attinto a un archivio personale di circa quattrocento code di film Super8, conservate per decine di anni in una scatola di metallo. Baresi racconta di aver voluto «ingrandire questi minuscoli residui di pellicola per dare un’esistenza a dei frammenti spesso anonimi», entrati in modo casuale fra i suoi materiali. Tra questi, infatti, oltre a fotogrammi appartenenti alle proprie bobine anche altri «misteriosi», girati da altre persone in luoghi non identificati del mondo. Sorprese ricevute in regalo ogni volta che un proprio film tornava dal laboratorio di sviluppo. Nelle buste gialle della Kodachrome comparivano frammenti sperduti di cui diventava, in modo incidentale, responsabile.

Da qui il bisogno, innanzitutto, di conservare tutte queste minuscole tracce di girato: fotogrammi spesso bucati, rigati o addirittura trasparenti.
Titania nasce come concatenazione di eventi inaspettati, come conseguenza di una programmatica accettazione del caso: «Il ritrovamento fortunato – spiega Baresi – di un numero sufficiente di telai 4×4 con vetrini, di marca Titania, ha reso possibili le diverse composizioni» (fra le immagini proposte anche elaborazioni dirette su acetato con interventi di colore insieme a estratti del testo di Dominc Case intitolato Motion picture film processing).

Il passo successivo è stato quello di trovare una tecnica che permettesse da un lato un forte ingrandimento di questi frammenti “«trovati» e dall’altro una proiezione che potesse fare a meno di interventi post-produttivi. La risposta a questo tipo di esigenza il regista la trova affidandosi a tecniche che si rifanno al pre-cinema: per gli ingrandimenti adopera una macchina fotografica a soffietto e per la proiezione dei caricatori per diapositive. Delle soluzioni che peraltro mettono il fruitore in una condizione di improvvisazione performativa (nel senso che è chiamato a reinventare il suo porsi rispetto alle immagini) simile a quella che probabilmente doveva essere la «libertà» spettatoriale delle origini del cinema.

L’installazione proposta prevede dunque percorsi di lettura inediti e, chiaramente, esperienze di visione del tutto diverse: alla fissità immodificabile imposta dalla proiezione in sala si sostituisce una possibilità di spostamento attorno alle immagini, caratterizzata da vari punti di vista, anche quelli abitualmente ritenuti non canonici.

Si potrebbe alternativamente definire Titania «il tempo ritrovato», anche perché tra le pagine dell’omonimo libro di Proust c’è una frase a cui volendo potremmo affidare il senso dell’operazione compiuta da Baresi che dice così: «Il modo fortuito, ineluttabile, con cui ero incappato nella sensazione, garantiva di per sé la verità del passato che essa resuscitava, delle immagini cui dava l’avvio, poiché noi sentiamo il suo sforzo per risalire verso la luce, sentiamo in noi la gioia per la realtà ritrovata».

Ma Titania può anche esser letto come una reazione a quell’inappagato bisogno di immagini sempre nuove; una reazione che non può che ripartire dallo sterminato giacimento visivo abbandonatoci alle spalle e destinato all’oblio.