Che la chiesa cattolica ragioni da tempo sui beni comuni è un fatto noto, ma dopo l’omelia di insediamento di papa Francesco è diventato anche un fatto politico. Scopriremo presto quali implicazioni concrete potrà avere la scelta del nuovo pontefice di mettere al centro del suo programma la difesa del «Creato». Sappiamo già su quali fondamenta storiche e teologiche si è sviluppato il pensiero cattolico sulla destinazione universale dei beni. In un libro recente (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi), Salvatore Settis ha compiuto un importante lavoro di sistematizzazione delle conoscenze sulla categoria dei beni comuni, sottolineando come lo sviluppo del dibattito attuale trovi le sue origini tanto nella Common Law e nel pensiero liberale anglosassone, quanto nella più antica Civil law continentale derivata dal diritto romano e nella legislazione degli stati pre-unitari.

In difesa del creato
Nello sviluppo di entrambe le tradizioni, spiega l’autore, è stato centrale il contributo della concezione cristiana sulla proprietà e sui suoi limiti. Senza addentrarsi nel ricchissimo dibattito tra i padri della chiesa sulla difesa del «Creato» come dono di Dio (Genesi 1.26-28), è bene tenere presente come punto di partenza che l’idea di una destinazione universale dei beni (e quindi di una giusta distribuzione) ha preso forma con i canonisti e poi nella Summa di Tommaso d’Aquino, l’ideatore della categoria del dominium naturale. In breve, Tommaso difendeva la proprietà come rapporto duraturo con le cose, ma asseriva che il possesso dovesse essere solo un usufrutto di ciò che è, e non può che rimanere, in comune.

Lo sviluppo del suo pensiero ha animato nei secoli numerose controversie sulla legittimità della proprietà, tra le più celebri quella tra il francescano Bonagrazia da Bergamo e papa Giovanni XXII, e sarà nuovamente un francescano, Guglielmo di Ockham a negare con forza che la proprietà appartenga allo stato di natura. Ci dovranno fare i conti in età moderna i teorici delle enclosures ed è tanto esemplare, quanto in realtà normale, che un filosofo come John Locke, pur arrivando a teorizzare la privatizzazione, abbia impostato il suo ragionamento a partire dal principio biblico di destinazione universale.

La concezione cristiana tardoantica-medievale del «Creato» si trova dunque alle origini di quel liberalismo che, pur riducendo al minimo gli spazi del «comune», riconoscerà l’esistenza dei commons. Il secondo canale di sviluppo in età contemporanea è stato quello della dottrina sociale della chiesa cattolica. La prima enciclica sociale, Rerum novarum, scagliandosi contro il socialismo, riconosceva la razionalità e perfino la naturalità della proprietà, ma affermava che la società avrebbe dovuto fare propria la concezione tomistica sui beni essenziali e strutturarsi in modo corporativo. Sarà Giovanni XXIII a prendere atto del fallimento e a sintonizzare la chiesa sui grandi problemi del tempo. Riguardo alla distribuzione della ricchezza, il papa si contrapponeva alle nuove scuole neo-liberali e sottolineava che «al diritto di proprietà privata è intrinsecamente inerente una funzione sociale» (Mater et Magistra, 1961). Si trattava di un monito che di fatto metteva da parte il principio della «razionalità» della proprietà privata avvicinando la tradizione cristiana alle nuove teorie sullo «Stato sociale». La svolta fu confermata dal Vaticano II. Riguardo alla funzione della proprietà, la Gaudium et spes ne confermava la validità, ma solo se orientata al bene comune. Inoltre, l’interesse non riguardava più solamente la distribuzione della ricchezza, ma il problema dell’accesso e della difesa delle risorse collettive.

Nel post-concilio, l’allargamento dell’interesse ai problemi del sottosviluppo proseguirà nelle due encicliche di Paolo VI Populorum progressio (1967) e Octogesima adveniens (1971), che illustrava il pensiero del magistero cattolico sullo sfruttamento delle risorse naturali. Sarà però solo con Giovanni Paolo II che i beni comuni faranno il loro ingresso nell’insegnamento della chiesa. Wojtyla ha accettato alcuni principi dello stato liberale senza però aderire all’«economia di impresa». Ne è un esempio l’enciclica Centesimus annus. In questo testo Giovanni Paolo II ha confermato il valore della proprietà privata, ma anche la subordinazione dell’interesse economico al bene comune. Si trova qui anche il primo esplicito riferimento ai beni comuni: «È compito dello Stato provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l’ambiente naturale e l’ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato». Giovanni Paolo II mostrava ancora fiducia nel ruolo di tutela dello Stato; Benedetto XVI ha espresso invece un maggiore scetticismo sulla capacità dei governi di controllare i mercati. Si pensi all’enciclica Caritas in Veritate (2009), dove ha denunciato le ineguaglianza prodotte dalla globalizzazione e ha ripetuto il dovere di difendere i beni comuni: «La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso».

Custode della creazione
Nel ragionamento di Ratzinger non è difficile scorgere un ritorno alla dottrina sociale tradizionale con la chiesa che si erge in supplenza degli stati, ma non c’è dubbio che le ultime dichiarazioni del magistero, comprese quelle sulla difesa dell’acqua pubblica (Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: 2003 e 2012) e in occasione di grandi Summit internazionali (ultimo in ordine di tempo Rio de Janeiro, 2012) abbiano avvicinato la posizione della chiesa al dibattito più recente sui commons e sul superamento della dicotomia Stato/mercato nella crisi dello Stato moderno e del neo-liberismo. Anche alla luce della recente omelia, con quel richiamo ai potenti «in ambito economico, politico e sociale» a essere «custodi della creazione», è difficile pensare che Papa Francesco si sottrarrà a questa discussione negando ai fedeli una nuova enciclica sociale. Il suo magistero sembra promettere ulteriori contributi teorici e c’è da credere un importante avallo alla battaglia per i beni comuni.