Nel Profondo Sud la tensione si accende quasi sempre d’estate. L’afa, l’effluvio del glicine, gli odori, la polvere, i fiocchi di cotone e il granturco, gli umori sopiti – come la terra – dai mesi freddi e di cacciagione, prendono fuoco e si scaricano. La calura è nell’anima di quel paese di passioni arse, e l’estate è il tempo in cui passato glorioso e presente stravolto, entrambi fondati sulla presenza del «nero», si riafferrano per la gola fomentando un ventaglio di malesseri. Lo dicono anche alcuni titoli: Luce d’agosto di William Faulkner, Improvvisamente l’estate scorsa di Tennessee Williams, e Fermento di luglio di Erskine Caldwell che, dopo la versione mondadoriana di Maria Luisa Fehr, riappare in libreria in una nuova sciolta traduzione di Luca Briasco, lessicalmente precisa e filologicamente corretta (Fazi «Le strade», pp. 188, euro 17,50).

Sembra sia stato superato l’acme più tragico della Depressione: braccianti (bianchi e neri) e mezzadri (i «poveri bianchi» venuti dal Nord mezzo secolo prima) sono tornati alla terra, tengono d’occhio il prezzo del cotone, si interessano alla «politica» locale (Democratica), e tutti mangiano praticamente solo pane e fagioli, e qualche foglia di rapa (che avrà una parte nella miseria della Via del tabacco), ma l’odio nei cuori cova. Fermento di luglio è del 1940. Forse è il minore della trilogia «del Sud» che include anche Il piccolo campo (God’s Little Acre, ma quel «God’s» non è proprio salvabile in italiano?) eppure, non si può non notare la stessa densa, anti-faulkneriana compressione, una essenzialità, quasi filmica, a tratti teatrale, che smussa l’asprezza dei problemi con non rare punte di buon senso comico e humor irridente (si raccomandano i capitoli 6 e 7). In scena c’è il linciaggio di un «negro» (innocente, naturalmente, «come un neonato»), ma prima della fine, più della movimentazione della caccia all’uomo sono i passaggi in apparenza statici, le scenette, gli sketch situazionali e dialogici, a riempire l’intreccio, condensato nell’arco di meno di quarantotto ore.

Il perno su cui si avvolge la matassa del linciaggio per stupro di una ragazza bianca è Jeff McCurtain, lo sceriffo di una contea rurale della Georgia. Jeff è la «legge» genuina (sia pur opportunistica) contro un’altra ‘legge’, quella del branco bianco, che, a fronte dell’offesa del negro, si fa, disorganicamente, giustizia da sé, anche perché «questo paese appartiene ai bianchi. I negri dovranno sempre venire a patti con questa realtà», dice l’unico, oltre a Jeff, che potrebbe salvare Sonny alla fine. Intanto, forse è proprio Jeff a nascondere il negro che tutti cercano e nessuno trova, neanche il padre della ragazza, il violento Shep. Sorge il sospetto che, per qualche ragione, sia invece lui a nascondere Sonny, il quale non è mai stato più di un miglio lontano da casa, conosce solo il piccolo mondo in cui è nato e cresciuto mezzo-orfano. Chiunque nasconda un negro «vale ancora meno di un negro». Ma non è questo il caso di Fermento di luglio: è solo una possibilità non in essere, bensì ventilata, tanto per aggiungere tasselli al quadro ideologico e antropologico. Almeno per quanto riguarda Shep, il costume del linciaggio, sulla cui vergogna si discuteva al Congresso proprio in quegli anni, è troppo forte perché quella possibilità possa prendere corpo. È così dominante che molto spesso l’altra legge, quella giusta, deve eclissarsi, scegliere di farsi sorprendere, ignara del fattaccio, a pescare trote al ruscello.

A fianco del protagonismo cautelato dello sceriffo c’è quello inflessibile di Mrs Narcissa Calhoun (il cognome è lo stesso di un influente Senatore sudista pre-Guerra di Secessione), una venditrice di bibbie e opuscoli solidali con la tradizione di un Cristo bianco e non nero, e ora in fregola per la sottoscrizione di una petizione in cui si chiede al Presidente degli Stati Uniti di rispedire, «senza alcun indugio o rinvio», tutti i negri in Africa da dove sono venuti. Non sarà stata mica lei a organizzare la sceneggiata dello stupro di Kathy? È un dubbio che inizia a circolare. Che circoli pure, e si riconosca pure che la ragazza ha tutta l’aria della «sgualdrinella» in calore (come si vuole che abbia solo una ragazza negra), e che Sonny non ha mai corteggiato o accarezzato una ragazza bianca o nera: «Io non ne so proprio niente di queste cose», si difende quando è agli estremi. Sono fattori che non hanno importanza: lo stupratore va comunque linciato e impiccato.

Fra Jeff e Narcissa (e il branco e un altro negro di nome Sam, coinvolto suo malgrado nella faccenda) c’è il giudice Ben Allen che, fuori scena, pareggerà i conti con la missionaria, liquidandola con la minaccia di dichiararla «non compos mentis» o di accusarla di sobillazione alla violenza. Tutte le responsabilità della vita non di uno ma di due negri posano allora sulle spalle dello sceriffo che ha doveri verso la «politica» e il suo stipendio, entrambi gli consigliano di badare alla forzata vocazione per la pesca. Tuttavia, a che serve pescare trote se non si prova prima a pescare uomini? Nel fondo, e di fronte alle asperità dell’ambiente, Jeff non è come l’impotente Re Pescatore della Terra desolata di T.S. Eliot, il suo ufficio nel mondo, al pari della terra che ha ricominciato a produrre, non è proprio sterile, anzi potrebbe iniziare adesso a dare frutti. Se di fronte al linciaggio di Sonny può poco, non è così nel caso del salvataggio di Sam, un trafficante d’auto da rottamare, recidivo e un po’ imbroglione, cui lo sceriffo è legato da umana simpatia, quasi inconsapevole fraternità. Ed è il riconoscimento di questo vincolo a metterlo sulla strada della contea nella speranza di far continuare a vivere almeno uno dei due perseguitati, se non entrambi, e Sam, se lo trova vivo, sarà protetto nel futuro, egli promette, da una dichiarazione di «non compos mentis».

Il finale di Fermento di luglio è fra i passi più sorprendenti del Novecento americano: con gli occhi dello sceriffo e del suo vice, si assiste da lontano non all’impiccagione di Sonny, che è stata già eseguita, ma a una «lapidazione» che ha luogo sotto il pendolo rotante del corpo nero appeso a un grosso ramo, «spogliato di ogni foglia a colpi di arma da fuoco». Tutto si compie in un giro ristretto e veloce di tempo e pagine. Da branco battuto, e forse pentito, i bianchi hanno dato corso a un ulteriore massacro. Questo, borbotta Jeff, «dovrebbe mettere fine una volta per tutte ai linciaggi».

Nonostante la legge in discussione a Washington (il Costigan-Wagner Bill), storicamente non sarà così. Caldwell, tuttavia, indica, almeno ai suoi numerosi lettori, l’urgenza del problema, e lo fa con un grado di maestria esemplare. Scrittura, costruzione narrativa e inattese simbologie si fondono organicamente come nella monade di un bossolo di fucile. E Jeff è una delle creazioni più straordinarie di Caldwell, perché, nella sua apparente leggerezza, è il più ‘puro’ (non il più ‘bianco’). Stupisce pensare a come, considerato il suo status di scrittore da ‘cassetta’ per le scene piccanti, Caldwell sia stato maltrattato da editori e snobbato dai critici letterari. Richard Wright e Ralph Ellison, entrambi afro-americani, invece videro subito quello che egli stava facendo. Ellison comprese, in anticipo sui tempi, che giocasse in modo astuto su un ribaltamento degli stereotipi, trasferendo sui suoi bianchi tutti i vizi e le violenze di cui erano ritenuti portatori i neri. E a rileggere Fermento di luglio oggi non si può non dargli ragione, sebbene la grandezza di questo romanzo poggi anche su altro.