Ovviamente, e per fortuna, cinquant’anni dopo non si riesce a distinguere la parte giornalistica dalla componente politica. Il manifesto, è così, una cosa sola, uno strumento di battaglia e di conoscenza insieme. Capire per fare, conoscere per prendere parte, sapere per poter cambiare.
In mezzo secolo in cui la neutralità dell’informazione è stata spesso scambiata con il cinismo, la «realpolitik», l’acquiescenza, questo esperimento permanente ha sempre svolto fino in fondo i due ruoli, giornale e progetto politico, uniti in un’idea del mondo e in una chiave d’interpretazione del Paese.
Una lettura troppo parziale nella sua radicalità? Ma non è stata forse radicale la vicenda italiana di questi anni, nei suoi passaggi fondamentali e nei suoi angoli più oscuri?
Quei due elementi segnano anche il mio vero incontro con il manifesto nel settembre 1973, con il golpe militare in Cile e l’assassinio di Salvador Allende. Prima naturalmente c’era stata la campagna per Valpreda e la sua candidatura alle elezioni politiche nel ’72.
Ma quel golpe classico che radunava in sé tutti i fantasmi di una stagione è stato uno spartiacque per una generazione, e il giornale ha funzionato come una lente d’ingrandimento, un criterio di valutazione, anche per la capacità di legare insieme la cronaca e la storia.
Ricordo, con un po’ di confusione, una fotografia dei cittadini imprigionati dentro lo stadio dopo il rastrellamento delle squadre militari di Pinochet, e sopra il lungo titolo che cominciava così: «Ecco i contadini e gli operai che il socialismo di Allende aveva liberato…».
Poi, non so quanto tempo dopo, ci fu un «quaderno» del manifesto interamente dedicato al Cile. Andammo a prenderne decine di copie in via Rolando a Torino, convinti di organizzare una diffusione tra gli amici in paese: qualche anno fa ho trovato un pacco superstite di quei «quaderni» nel garage di mio padre.
settembre 1973, le copertine sul Cile
Ma soprattutto ricordo la domanda di Pintor: «Che cosa sarà mai il fascismo, se non è questo»? Di fianco, nella memoria, un articolo di Rossanda che recuperava il suo incontro con Allende, due anni prima, in quella stessa stanza dove era stato ritrovato il corpo del presidente e dove aveva pronunciato le ultime parole: «Non mi arrenderò a una forza priva di ragione».
Non è la «parte del torto» che mi ha interessato, in tutti questi anni, aprendo il manifesto, anche quando non ero d’accordo. È piuttosto la capacità – utile a tutti – di individuare la dimensione politica dei fatti, grandi o piccoli, traendone una lettura generale.
Dal mio osservatorio esterno, io lego quella scuola ai nomi di Pintor, Rossanda, Castellina, Rina Gagliardi e Valentino Parlato, agli amici con cui abbiamo passato ore a discutere nel Transatlantico di Montecitorio, cercando di capire: fino alla squadra che fa il giornale oggi.
C’è infine una vera e propria lezione intatta del manifesto: ed è la potenza grafica del disegno originario, con cui si è presentato ai lettori, uguale soltanto a se stesso, scegliendo il rigore assoluto e l’ordine quasi geometrico delle sue pagine.
Senza orpelli, sottolineature, ammiccamenti. Nudo testo sotto i titoli, la potenza delle parole e la fiducia nei concetti, costruendo un’architettura complessiva completamente diversa da ogni modello, immediatamente aderente al significato, sicura che il reale non ha bisogno di artifizi: un atto di fiducia nella realtà, e nel giornalismo.
Non una scelta estetica, dunque, ma di sostanza. A partire da quei titoli raccontati, che corrono su tutta la prima pagina anche per sette, otto righe, e spiegano commentando: come un editoriale.
Ezio Mauro è stato direttore de La Stampa prima e di Repubblica poi dal 1992 al 2016