Ho fatto, fra il 1954 e il 1958, il ginnasio e il liceo classico al Massimo, scuola parificata dei gesuiti, quando ancora si trovava a Piazza dei Cinquecento, in un bel palazzo dove poi Bellocchio avrebbe girato Nel nome del padre e che ha ospitato poi il Museo Nazionale Romano. Tre anni, credo, avanti a me vi studiava anche Virgilio Fantuzzi, che era nato nel 1937, era entrato nel Noviziato dei Gesuiti nel 1954 ed era stato ordinato sacerdote nel 1969.

Ma non è a scuola che l’ho conosciuto. Lui se lo ricordava meglio di me e me lo ha ripetuto varie volte, ma io non l’ho mai davvero memorizzato. Era comunque alcuni anni dopo, e credo che sia stato lui a telefonarmi per prendere un appuntamento, perché sapeva che mi interessavo, come lui, al cinema.

Da allora l’ho visto e sentito non so quante volte, fino a non molti giorni fa al telefono. È lui che ha celebrato il mio matrimonio con Stefania Parigi nella chiesa dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore vicino Siena (perché volevo coronare l’evento con una «vera» cerimonia), dispensandoci però dal confessarci perché non eravamo credenti, nonostante la mia educazione in quella scuola. E, coerentemente, «dimenticandosi» di celebrare la comunione lasciando a bocca asciutta i molti astanti, ancor più sconcertati dall’omelia in cui ha dissertato di Rossellini (per me) e di Pasolini (per Stefania).

VEDENDOCI e telefonandoci parlavamo molto di cinema, soprattutto e maniacalmente di Rossellini. Ma anche, perché lo consideravo e lo considero un amico, di questioni di varia umanità, e a volte lo prendevo un po’ in giro perché era un prete «fuori norma» («Quanti peccati avrai da confessare?»).

Di preti legati al cinema ce ne sono stati diversi, quasi tutti gesuiti (non a caso?) e quasi tutti in ottimi rapporti con registi non necessariamente credenti. Virgilio lo era con molti. Il suo ultimo libro, di cui ho avuto l’onore di scrivere la prefazione (Virgilio e i suoi Dante), si intitola Luce in sala. La ricerca del divino nel cinema (Ancora-La Civiltà Cattolica 2018). Non è tanto una raccolta di recensioni, come il precedente Cinema sacro & profano (La Civiltà Cattolica 1983), quanto di «racconti» su e incontri con Rossellini, Fellini, Sergio Citti, Bertolucci, Bellocchio, Paolo Benvenuti, i Taviani, Olmi.

Virgilio scriveva regolarmente, dal 1973, sul mensile dei gesuiti «La Civiltà Cattolica» (ma talvolta anche altrove, quando aveva da dire qualcosa di un po’ troppo osé per la rivista cattolica). Il suo ultimo articolo è del 20 aprile scorso sul restauro di Metropolis di Fritz Lang.

CHE CRITICO era? Intanto scriveva solo su film e autori che gli piacevano. Poi prendeva sempre pretesto dall’attualità: o perché un film era appena uscito o perché, se era un «classico», era stato mostrato in qualche manifestazione o per qualche altro motivo. L’approccio era puntigliosamente analitico, come se avesse il film sotto gli occhi (visto evidentemente più volte e, più di recente, con l’aiuto di un dvd) e volesse, con il solo ausilio della parola, metterlo sotto quelli del lettore. Ma la sua descrizione del film, apparentemente oggettiva, anticipava fra le righe il suo giudizio, che non manifestava mai esplicitamente ma quasi conducendo per mano il lettore-spettatore per sollecitarlo a farsi un’idea propria.

DICEVO nella prefazione al suo ultimo libro: «Ciò che innanzitutto mi colpisce in Fantuzzi è la limpidezza della sua scrittura. Non è facile essere chiari. Non vuole certo dire semplificare ma cercare la densità senza addobbarla di orpelli inutili. Fantuzzi crede profondamente nella possibilità di comunicare la complessità dell’arte cinematografica a chi potrebbe esserne intimidito. In questo è socratico: maieuta che aiuta l’opera d’arte a far nascere in ognuno di noi – casomai anima semplice – il frutto della bellezza poetica. È, in altre parole, un maieuta». È un Virgilio che ci cammina accanto per farci ammirare i suoi Dante, ma anche senza aver paura di ciò che può sembrare un inferno o un purgatorio.

Di saggisti di cinema non accademici, non presi dalla frenesia del settimanale capolavoro, non ce ne sono tanti da noi. La sua voce e la sua scrittura ci restano nel cuore e nella mente. Non sappiamo come sostituirle.