Con Mortali e Immortali di Stefano Duranti Poccetti (Transeuropa, pp. 56, euro 15) si assiste alla fusione di stile lirico e prosa: esempio unico, denso e puntuale, di ibridismo tra le due forme espressive. Eros e Thanatos, in queste prose liriche, si compenetrano senza soluzione di continuità e acquistano senso esperienziale solo in virtù di tale connubio – diremmo “vincolo sacrale” –, mai in forma di dipolo e men che meno di dualismo. V’è in Duranti un fresco getto di intuizioni originali e veraci che mettono sotto la lente di un sensitivo sguardo poetico l’esistenza – quella che sopravvive al suo possibile esaurirsi e quella che pare solo scintilla nella notte del tempo –, inverando con armonia quella compassata compostezza che ne detta brevità e intrinseca eleganza votando entrambe alle fertili terre dello Spirito piuttosto che a quelle sterili del materialismo.

Duranti commuta fatti semplici – quadretti di vita quotidiana, anche quella più usata – in una ritrattistica d’autore che trascende il contingente verso un piano universale su base intersoggettiva, di collettivizzazione dell’esperienza in contrasto con individualismo spinto e narcisismo; così spesso tipici di una sfera del desiderio che non coltiva rapporto dialettico con l’Altro in senso lacaniano, e misconosce le proprie zone di fragilità. Di fronte a una società che istituzionalizza la virtualità, atomizza i ruoli, adduce miti di falso progresso, Duranti assume la responsabilità di negare gli elementi speciosi che mortificano la vita nel suo aspetto più genuino. La sua poesia osteggia la logica del “prendere e dell’avere”, ponendosi contro un’industria culturale che diseduca al farsi carico dei valori fondanti di un’esperienza di vita veridica e altra dall’assuefazione ai paradigmi mendaci di un edonismo acefalo; esso non produce infatti se non omologazione meccanica e tale da spegnere l’incanto dei vasti spazi dell’anima, spazi che significano confronto, empatia, e tutto quanto si possa sussumere alla spinta sorgiva dell’esistenza come luogo di incontro e condivisione – esistenza che in senso heideggeriano trova propulsione progettante a partire dal fare i conti con la morte come possibilità costante dell’impossibilità. Ma apparentemente in contrasto con l’esserci storico heideggeriano, Duranti si concentra su una temporalità circolare che ritualizza ed è fatta di memoria lunga e decantata, rientrante cioè nel quadro delle “società fredde” così come descritte da Strauss.

Egli sceglie di celebrare la Natura con i suoi lenti, enormi cicli così in contrasto con i tempi incalzanti del commercio e della produttività spinta; sceglie di onorarla entro una prospettiva vitalistica, quasi panpsichistica, di contemplazione e celebrazione pura della bellezza e volitività che la innervano – talvolta transeunti, talvolta le stesse, ancora oggi, dalla “foresta della notte”. Ed è qui che il linguaggio poetico si fa voce di un tempo messianico in cui la vera dialettica si compie solo nella sospensione, in un tempo kairologico che si arresta per entrare in costellazione col passato e accogliere oggi, ora, ciò che vi si è compiuto… Scriveva Benjamin: “… esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una ‘debole’ forza messianica, a cui il passato ha diritto.” Duranti dichiara che quanto vi è di epifanico e meraviglioso nel binomio uomo-natura, sia atavico e attingibile solo a costo di spogliarsi di ogni sovrastruttura dettata da una mancata relativizzazione di usi, ruoli e costumi dallo statuto provvisorio e puramente evenemenziale, ma che la civiltà stessa detta e ipostatizza in modo truffaldino come assoluti e assiomatici.