C’è tutto un fuoricampo dietro Il Campione di Leonardo D’Agostini; non solo l’impalcatura di cattivo gusto e spreco, specchio del contemporaneo, in cui sguazza Christian quando appunto è fuori dal campo di calcio: maialino infiocchettato a bordo piscina, ampie vetrate, stanze opulente e fredde in cui si consumano i bivacchi degli ospiti; ma anche tutto ciò che per contrasto si prefigura o si ricorda di quello che il calcio è potuto essere in passato, in una dimensione romantica, epica, e allo stesso tempo più domestica, «scolastica», entro quella progenie di calciatori-personaggi che va da Meloni a Scirea, Di Bartolomei, Socrates e si ferma a Pessotto, tra filosofie di vita ed estro, impegno ed esistenzialismo, depressione.

Un’esperienza umana e di pensiero cioè, al di là del campo, che faceva del calcio dialettica, estetica, letteratura, quella di Osvaldo Soriano, Giovanni Arpino, Gianni Mura, che raccontavano la grande metafora (della vita) che era il calcio (in ambito cinematografico mi viene in mente solo Fuga per la vittoria di John Huston, meno L’uomo in più di Sorrentino, qualcosa dell’Avati di Ultimo minuto), ora ridotto invece a spettacolo a sé, per lo più televisivo, lallazione di zazzerone e altri pseudo-commentatori, epistemologi di questo nulla che luccica dagli schermi, dagli studi televisivi.

È proprio questo sguardo impietoso sulla televisività dello spettacolo uno degli aspetti più interessanti del Campione; cioè la messa in scena laccata, in 4k, in sovraesposizione di luce direbbe Pasolini, di quel baratro di non senso in cui cade ogni volta il calcio: interviste senza risposte, costruzione arbitraria delle polemiche, splendore delle giornaliste fuori dai corsetti, sussiego verso l’orrore delle tifoserie organizzate, razziste, crapulone, e poi lo spettacolo da consolle offerte dal campo, la partita tra automi lanciati a cento all’ora, che trasudano siliciuri anziché sudore, e vanificano ogni tentativo di raccontare il gesto, lo sforzo, il fango attaccato alla maglia.

ALLORA D’Agostini, e con lui Sibilia e Rovere in veste di produttori e Antonella Lattanzi cosceneggiatrice, tenta la strada di umanizzazione, anzi riumanizzazione di questo pseudo-sport, insinuandovi la presenza di un professore di materie umanistiche, trasandato, zaino in spalla, che reintroduce in questo mondo di ignoranza, sperpero e cattivo gusto, la scintilla del pensiero, dell’istruzione: è la possibilità del racconto dell’umano, del dolore edificante celato dietro la barriera di tatuaggi, pantaloni bracaloni e «articoli di bigiutteria in celluloide» che pendono dal collo come un giogo che tiene avvinti al vuoto, al nulla. Accorsi è un attore adatto a questo ruolo: distratto, appesantito nei tratti dall’enorme fardello che Valerio si porta addosso, anche se meno incisivo che in film come Veloce come il vento, proprio di Rovere, o rispetto al Dino Campana di Placido.

SPICCA invece Andrea Carpenzano, davvero straordinario nei panni del campione Christian Ferro, accanto a Ludovica Martino, fulcro di una sceneggiatura forse prevedibile, a tratti approssimata, ma perfettamente funzionale alla complessione di un film che non ha ambizioni formali, come non ne aveva Smetto quando voglio o Veloce come il vento, nella cui linea (virtuosa) tra immediata fruibilità e impegno si inserisce.

Alessia, spalleggiata da Valerio, è musa di questa normalità vibrante, di una vita fatta di studio, idee, di ricerca, che poi è sempre ricerca di sé, delle motivazioni per cui ci si sente, ci si ritrova parte di un tutto che mormora dal cortile di una scuola, quando al ricordo ancora fresco, così nitido di Scirea sudato nella sua maglia lanosa, che portava palla, sinuoso, nella trequarti tedesca, ci si scambiava le figurine, ché ci volevano un calciatore di serie A e uno di B per ottenere un Barbadillo, e già si pregustava la sigla di «Domenica sprint» di Oscar Prudente, la domenica sera. Basterebbe ascoltare le sigle delle trasmissioni sportive dagli anni Settanta ai giorni nostri per comprendere com’è cambiato, come si è immiserita, istupidita questa impalcatura sconnessa, scatologica, che chiamiamo mondo.