L’ufficio di Giorgio Barberio Corsetti, nel retro del teatro Argentina, affaccia su una corte, un piccolo giardino che ispira tranquillità. Lui è lì, già al telefono, è mattino presto ma tutti sono al lavoro, quando ci incontriamo si sta preparando l’evento della Festa di Roma, il Capodanno che stasera animerà la città di cui il Teatro di Roma è il capofila – a curarlo sono Fabrizio Arcuri, Francesca Macrì (della compagnia Biancofango) e Claudia Sorace (dei Muta Imago).

Da qualche mese Corsetti è stato nominato alla direzione del Teatro di Roma – per il triennio 2019-2021 – affiancato da Francesca Corona come consulente artistica per la sala India. Non è la prima volta che il regista unisce la sua ricerca scenica, iniziata nel 1976 con l’esperienza condivisa insieme a Alessandra Vanzi e a Marco Solari della Gaia Scienza, e il debutto sulle tavole del romano Beat 72 con La rivolta degli oggetti, da Majakovskij, al lavoro di direzione e organizzazione: tra il 1999 e il 2001 è stato alla guida della Biennale Teatro di Venezia, poi ha curato la sezione danza per il Parco della Musica a Roma, la direzione artistica della prima edizione del FestiVAl, e insieme alla sua compagnia Fattore K. ha organizzato il festival internazionale Vertigine dedicato al teatro emergente italiano: «Il mio attraversamento della scena teatrale è una storia fatta di viaggi sul confine tra il teatro e le altre arti che mi ha costretto a inventare continuamente modi di produrre degli spettacoli in strutture pubbliche non in grado accogliere un pensiero diverso dalla pratica corrente. E questa è la stessa sfida che mi sono dato quando ero direttore della Biennale, abbiamo lottato per trovare nuovi spazi, creato tutti i teatri che sono ora a disposizione con la grande conquista dell’Arsenale…».

Con il Teatro di Roma quale sarà invece la tua sfida?
Ho avuto la fortuna di incontrare Francesca Corona e al tempo stesso di trovare una pratica, dei modi di produzione, dei rapporti in una equipe molto interessanti. La sfida è ancora una volta vedere come tutto questo si può innestare in strutture che hanno la loro storia, il loro modo di essere e anche una loro inerzia, che però si trasformano con un cambio di direzione. Vorrei un teatro dinamico, curioso, desideroso di aprirsi alla città, dove si vedono spettacoli che devono essere vivi, capaci di interrogare la nostra esistenza.

Insomma un teatro declinato al presente.
Mi piacerebbe creare una comunità che si possa riconoscere nel teatro perché insieme agli attori vive un’esperienza che interroga il nostro modo di essere. Per questo è fondamentale la partecipazione collettiva – forse è il mio più grande sogno: è quanto si prova a fare con gli atelier degli spettacoli che creando una occasione di incontro tra artisti e spettatori offrono un diverso modo di entrare nella materia dello spettacolo stesso (si tratta di un programma di «atelier» con cadenza mensile curati da alcuni degli artisti/registi della stagione che apre palcoscenici alla città, ndr). Sto poi lavorando a un progetto che avrà la forma di un viaggio nella città di cui il teatro Argentina sarà il punto di arrivo finale per sottolinearne la caratteristica di essere il luogo dove si raccoglie quanto accade nel tessuto urbano. Roma è segnata dal Gra che stabilisce un «dentro» e un «fuori», tutti noi abbiamo una percezione limitata della sua topografia ma a questa possiamo sovrapporne un’altra immaginaria della quale – appunto – il teatro deve essere un cuore.

Cosa significa per te programmare un cartellone? Ovviamente non si tratta soltanto di unire dei titoli – anche molto riusciti – o artisti più o meno noti. In quanto dici sembra che vi si rispecchi la stessa tensione creativa della tua ricerca.
Il nostro gruppo, La Gaia Scienza, è nato in relazione alle altre arti, ci aveva conquistati la musica di La Monte Young – per citare uno dei nostri riferimenti. Da lì abbiamo continuato a costruire spettacoli sempre più strutturati, dalle cantine siamo arrivati all’Olimpico… Lo stesso vale per esperienze come è stata quella della Biennale teatro; insieme a Anna Cremonini, con la quale lavoravo allora, ci siamo guardati intorno per capire cosa stava accadendo sulla scena internazionale e abbiamo scoperto il Nuovo circo, realtà come La Baraque o Les Colporteur, danzatori sul filo del mondo. Ogni passaggio nasce da una connessione tra il mio desiderio di fare teatro e la situazione in cui mi trovo. Comprenderla significa interrogarla all’interno di una dimensione non solo programmatica ma anche poetica. Lo stesso avviene quando prepari uno spettacolo, si deve entrare nello spazio, sentire come respira; è qualcosa di organico, non basta pensarlo come a un posto che si riempie e si svuota alla fine di ogni replica. Un teatro come l’Argentina ha tutte le caratteristiche per diventare uno dei grandi teatri europei riconoscibile tra gli operatori delle altre istituzioni d’Europa: è come avere lo stesso «album di famiglia» che ci porta a inserire nel cartellone autori Kornél Mundruczu (sarà in scena il prossimo marzo con Imitation of life, ndr) o Alexander Zeldin. Al di là delle singole proposte però credo che sia prioritario restituire una fisionomia specifica al teatro nelle produzioni nazionali creando delle opportunità per le nuove generazioni.

Da cosa è nata l’esigenza di riadattare oggi il vostro debutto, «La rivolta degli oggetti»?
Con Alessandra Vanzi e Marco Solari ci siamo ritrovati all’uscita di un spettacolo, io non sapevo ancora che sarei diventato direttore del Teatro di Roma, discutendo abbiamo pensato a questa ipotesi come a una scommessa che metteva in gioco lo spettacolo ma anche un pezzo delle nostre vite dopo la nostra separazione. C’è in questa «ripresa» soprattutto l’esigenza di un passaggio del testimone, in scena ci sono dei ventenni di adesso con un vissuto che appartiene a un’epoca diversa, è il loro corpo a essere qui e adesso nella loro percezione della città, in quel subbuglio di rivolte e di squarci poetici visionari. E visto che gli eventi scenici descrivono il vissuto dei performer, la nostra presenza oggi sono le nostre voci registrate che riportano le esperienze successive a quando vi siamo divisi – il passaggio che recita di Alessandra Vanzi è molto forte… – ma anche quel profondo senso di rivolta che ci apparteneva quando abbiamo iniziato a lavorare.Un critico come Giuseppe Bartolucci aveva definito il nostro lavoro «esistenziale» perché esprimeva una percezione dell’esistenza al presente. Ed è questo che ci ha guidati nella rilettura.